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L’inevitabile succedersi degli eventi. Un racconto


L’inevitabile succedersi degli eventi.
  

Come finisce la storia di Barid e Yaranno, la storia che sto per raccontarvi, è risaputo:
“Al suo ritorno a corte, la Regina non accolse il Primo Giudice, suo fratello, con i sorrisi e gli abbracci riservati a un condottiero vittorioso, ma con freddezza e silenzio e per giorni non gli concesse di vedere il suo volto.”
Così finisce nella sua versione più famosa, certo le parole sono diverse a seconda di chi la racconta, la canta o la recita, ma la fine è sempre questa, il problema è come farla cominciare, questa storia, questo è più complicato.
Potremmo iniziare a narrarla partendo tre mesi prima, quando il Granduca di Nevrel decise di rompere gli indugi e, alla morte dell’ultimo figlio dell’Autocrate suo cugino (una morte non naturale e alquanto violenta), proclamò i suoi legittimi diritti sul trono e chiamò a raccolta i suoi vassalli e i suoi alleati per deporre Ranja, l’infame usurpatrice: “Quella puttanella, figlia di una gran puttana” come l’aveva definita, in maniera molto poco aristocratica.
Oppure potremmo tornare indietro di 4 o 5 anni, spiegando come e perché il vecchio Autocrate, iniziò a favorire in modo ignobile e illogico la sua figlia più piccola, Ranja’no, mettendo in subbuglio la linea di successione e gettando il paese nella guerra civile.
Volendo potremmo addirittura scorrere lo svolgersi dei secoli e cantare di come le genti dell’ovest arrivarono nel Malvearna, con i loro cavalli, i loro archi e i loro Demoni, saccheggiando città e distruggendo nazioni e fondandone di nuove.
Per finire potrebbe avere anche senso persino risalire nel tempo di milioni di anni e raccontare di come la deriva dei continenti creò la grande massa del Mondo Centrale, con le sue fertili propaggini, bagnate dal mare, fertilizzate dai fiumi e dalle piogge e le grandi steppe e i deserti del suo interno, un mare d’erba e sassi quasi infinito. Un luogo sperduto che forgia popoli nomadi, fieri e feroci, che prosperano nei periodi fertili e che al sopraggiungere della siccità e della carestia cercano immancabilmente nuovi spazi verso il mare, verso ovest e verso sud. Un ciclo climatico millenario, una pompa di genti, popoli e razze che è il vero motore della storia del nostro mondo.
Ma non siamo qui a scrivere libri e volumi, per i nostri scopi è sufficiente tornare indietro di appena tre giorni, spostandoci di poche miglia fino alla piana di Manehald.

Facciamo quindi cominciare tutto all’alba di una luminosa giornata di inizio inverno, fa freddo, ma non troppo, e, molto più importante, il terreno è asciutto e sodo, aperto, ottimo per i cavalli.
A nord ha preso posizione il Granduca di Nevrel con gli uomini che ha potuto radunare con chi così poco preavviso: non si aspettava certo di dar battaglia così presto, contava di passare l’inverno a radunar uomini e rinsaldar alleanze e lanciare una campagna estiva, ma quando un esercito dell’usurpatrice è entrato nelle sue terre ha accolto la notizia con la soddisfazione di un uomo di azione.
Ha ai suoi ordini circa ottomila uomini, metà fanteria, per lo più fanti leggeri, appoggiati da balestrieri e qualche archibugiere, il resto cavalleria, in quello stile che domina i campi di battaglia da secoli. Armatura pesante e cavalli massicci, ma veloci, arco composito per attaccare a distanza e lancia e mazza per caricare e travolgere le linee di fanteria scompaginate dalle frecce ed eventualmente scontrarsi a testa bassa con altra cavalleria di pari livello.
La sua strategia è semplice (con le leve feudali e tribali non si può certo puntare sul complicato), ma solida ed efficace, la fanteria concentrata sul suo lato destro funzionerà da cardine della manovra, il perno su cui la cavalleria alla sinistra ruoterà per colpire sul lato gli avversari e avvolgerne lo schieramento. È sicuro del fatto suo, la superiorità numerica e qualitativa è della sua.
Di fronte a lui ci sono poco più di cinquemila avversari, per lo più fanteria, la cavalleria sembra poca, dei distaccamenti leggeri sui lati, forse cinquecento/seicento cavalieri pesanti.
In inferiorità numerica, i realisti non hanno nemmeno provato a estendere la propria linea per pareggiare quella del Granduca, si sono schierati in maniera compatta: cinque grandi quadrati di fanteria separati da vasti spazi aperti, alla “Nuova Moda”, come si dice. Hanno letto bene lo schieramento avversario e sono sbilanciati proprio sul lato in cui il Granduca vuole far avanzare la cavalleria, uno dei quadrati spostato in posizione più arretrata a coprire il fianco destro.
Accanto all’usurpato stendardo reale, sul quadrato nell’angolo destro dello schieramento (quello dove arriverà con più forza l’urto avversario) sventola un altro vessillo: bianco, contornato da foglie di edera dorate, al centro una sola goccia di colore nero.
Basta questo per riempire il Gran Duca di sdegno: è il blasone del “Gran Bastardo”, il “Principe Demone”, la “Lacrima Nera” l’infame fratellastro dell’usurpatrice, il suo braccio armato. Un mezzo plebeo indegno dei suoi titoli e degli onori che gli vengono resi, degno compare della tiranna che infanga il trono.
I toni del suo discorso alle truppe sono degni dello scontro definitivo tra il bene il male, le acclamazioni e le grida di battaglia si alzano al cielo.
Ma se il prologo sembrava epico la battaglia invece è in sé stessa decisamente deludente: non dura non più di qualche ora, per pranzo è tutto finito. I quadrati dell’esercito reale irti di alabarde e archibugi respingono la carica della cavalleria granducale senza scomporsi, gli spazi aperti tra di quadrati si sono trasformati in trappole sottoposte a un mortale fuoco incrociato.
Il successivo contrattacco è quasi una formalità, colto nel tentativo di riorganizzarsi l’esercito del Granduca ondeggia e si sfalda definitivamente appena si sparge la voce che lo stesso Granduca sia caduto nella mischia. Non ci si disturba nemmeno a inseguire i fanti e cavalieri che sciamano via, abbandonando, lance e scudi, ognuno per sé stesso, in cerca di salvezza.
Prima del calar sole le truppe reali arrivano senza altra opposizione sotto le mura del castello di Nevrel. Il castello una volta era stato pensato di certo come una fortezza, la posizione, stupenda, lo testimonia, ma sono almeno un paio di secoli che non ha una funzione militare, è più un palazzo, i bastioni sono bassi, trasformati in giardini e terrazze, circondati dalle case e dalle piazze di un ricco borgo.
Il comandante della guarnigione e i due Prefetti della cittadina che si estende ai suoi piedi vanno incontro ai Realisti, scortati da preti e sacerdoti, a chiedere condizioni, coscienti che ogni resistenza sarebbe futile.
Le condizioni di resa, cinque talenti in oro e argento e l’apertura delle porte in cambio dell’assicurazione che non ci sarebbero stati saccheggi e violenze, sono quasi troppo belle per essere vere, ma i Realisti hanno fretta di chiudere la campagna e pacificare la zona, e sono disposti ad essere generosi.
Le porte si aprono, gli stendardi granducali vengono ammainati, e le truppe reali entrano da padrone, sfilando per le strade, non ci sono festeggiamenti o acclamazioni, ma non ci sono nemmeno violenze o spargimento di sangue, i cittadini osservano tutto al sicuro dietro le serrande serrate. In cima alla colonna delle truppe reali le teste del Granduca e dei suoi due figli aprono la marcia, infilate su delle picche.
In città qualcuno, sottovoce, al nome del Granduca già aggiunge già l’aggettivo “ribelle”. Il vento sta cambiando veloce.
Tutto sembra concludersi, in definitiva, con un numero pietosamente basso di vittime.

La sala del trono del Castello di Nevrel è ritenuta unanimemente una delle più imponenti della regione: enorme e splendente di marmi, ori e arazzi e opere d’arte accumulate nei secoli, può contenere svariate centinaia di persone e adesso, quasi vuota, rimbomba e riecheggia di risate.
Sul trono ducale, circondato da sei dei compagni più fidati, è seduto il vincitore della battaglia. È lui il braccio armato, lo stratega che vince le battaglie, per la sua sorellastra, per l’Usurpatrice, che ben presto diverrà anche qui la legittima beneamata Sovrana, Regina e Autocrate.
Il suo nome, è Barid Mae Aksim, ma in tutto il Malvearna è conosciuto con svariati soprannomi, il più noto è quello di “Gran Bastardo” (a memoria della sua origine illegittima). Pochi lo chiamano apertamente così, ovviamente, ma a lui come soprannome non dispiace, quasi lo inorgoglisce. È il nome con cui passerà alla storia.
È giovane e dall’aspetto vigoroso: i capelli neri che gli arrivano alle spalle, naso aquilino, e quei curiosi occhi di un castano chiarissimo, quasi giallo, che spiccano sulla carnagione scura sono tutte prove delle sue nobili ascendenze reali, almeno da parte di padre.
Su di lui non c’è da dilungarsi, impossibile non aver letto di lui, o non aver dovuto studiare a scuola. Lo stesso per i suoi compagni, tutti nel bene o nel male passati sui libri di storia, se non per i meriti personali, almeno per essere stati al suo fianco. Un poeta, uno storico e filosofo, un grande politico, un esploratore, almeno due famosi condottieri. C’è il futuro del paese in quella sala.
E c’è allegria: hanno appena finito di esaminare i numeri dei morti e dei feriti della battaglia, e sono fortunatamente piuttosto pochi. Si è già scorsa pure la lista degli uomini meritevoli di promozioni, premi e citazioni per il valore mostrato, o le iniziative prese.
Infine, uno dei Compagni afferra da un tavolo un enorme libro contabile:
“Ed ecco qua il contenuto del tesoro granducale.” Mostra un numero. C’è qualche fischio di ammirazione.
“Non un grande stratega il Granduca, ma un gran risparmiatore.” Fa qualcuno.
“Su, su lo schieramento non era male, cinquant’anni fa ci avrebbe anche potuto vincere qualcosa.” Risponde un altro.
Sua Grazia, il Gran Bastardo, Barid, esamina il libro mastro, li ignora, sorridendo leggermente alle battute che sente. Gli basta alzare gli occhi per farli smettere.
“Una bella cifra davvero.” Commenta. “Il cinquanta per cento va al tesoro reale. Il resto spartiamolo tra le truppe secondo le solite proporzioni e i soliti usi.”
Uno dei compagni riprende il libro mastro, con un piccolo inchino. “Agli ordini.”
Non fa in tempo ad allontanarsi che Barid lo ferma e lo fa riavvicinare con un gesto della mano. Si sporge in avanti attirando, se ce ne fosse stato bisogno, l’attenzione di tutti.
“Sentitemi, e fate attenzione a quello che vi chiedo.” Li fissa uno a uno. “Il mio non è un rimprovero, ma voglio essere chiaro: non voglio sentir parlare di oro che vi rimane appiccicato alle dita. Mi capite, vero? Non voglio sentir altre voci. C’è ne sono troppe e spiacevoli.”
Cala un attimo di silenzio, imbarazzato. È perfettamente vero, e c’è poco di strano, nessuno di loro è ricco e la fortuna va colta quando c’è l’occasione. Alla fine, uno dei sei, non importa chi, parla per tutti, risponde.
“Lo sapete che quello che è nostro è vostro. Mio Signore.”
Il Gran Bastardo, sorride, allunga una mano afferrando chi ha parlato per la spalla.
“Lo so amico io, lo so bene.” Lo guarda. “Ma questo però è anche peggio, perché fa sembrare che le mani siano le vostre, ma la borsa sia la mia. Mi capite?” Le teste annuiscono. “Basta. Penserò io a voi. Come al solito. O vi faccio mancare qualcosa?”
A rispondere è quello con in mano il libro mastro. Con un sorriso ribaldo.
“E così sia… vorrà dire, amici, che torneremo a corte, da questa campagna, molto più poveri di quando siamo partiti.” Il tono di dolore è talmente esagerato che scoppia qualche risata trattenuta.
“Su su un piatto di zuppa a corte lo troveremo sempre.” Si prende in giro qualcuno. “E i più belli di noi pure qualche servetta generosa.”
“Il problema è di chi è brutto come me, e gli tocca sborsare.” Fa un altro, oggettivamente il meno attraente col naso storto, gli occhi piccoli e la faccia butterata.
“Ne terrò conto, tranquillo, e avrai di più” fa il principe appoggiandosi allo schienale ridendo. Potrebbero seguire altre battute, come vi dicevo, l’atmosfera è più che allegra.
Il silenzio torna, all’entrata di uno degli ufficiali, che raggiunge il gruppo e parla concitatamente all’orecchio di Sua Grazia. Il Principe rimane un attimo pensieroso prima di dare un cenno di assenso.
Poi si rivolge agli altri: “Amici miei, ora seri e formali, vi prego. Abbiamo visite.” Si gode un attimo le facce perplesse e poi spiega. “A quanto pare Yaranno, la figlia del nostro amico Granduca, che si è fatto così gentilmente massacrare stamattina, per darci gloria e fama, mi chiede udienza.”
I commenti si sprecano, malgrado la richiesta di serietà:
“Coraggiosa la dama a sfidare il leone nella sua tana.”
“O forse solo stupida, fossi in lei, io cavalcherei a briglia sciolta per scappare il più lontano possibile.”
“Beh magari è pure graziosa e a qualcuno dirà fortuna stanotte.”
Vengono tutti zittiti da un gesto brusco. Mentre le porte della sala vengono aperte. Il principe stesso si raddrizza, sistemando meglio il semplice corsetto imbottito che indossava sotto l’armatura. Afferra la faretra e il suo arco composito, che aveva appoggiato accanto al trono, e se li sistema in grembo. Il segno universalmente riconosciuto del potere temporale ed è lui ora a comandare qui.
Dal fondo della sala scortata da due suoi ufficiali entra una piccola processione.
Alla testa è una dama slanciata che avanza imperiosa, vestita di un lungo abito di seta con decori floreali in trama dorata, il capo coperto da un velo tenuto fermo da un diadema. Le braccia nude.
Alle sue spalle due ancelle vestite più semplicemente e un paggio con lo scudo di famiglia del granduca ricamato sul corsetto di velluto nero.
Una delle due ancelle tiene in braccio un cane. Minuscolo, bianco e nero dal pelo lungo e setoso.
Barid, schiena dritta, il visto immobile e congelato, come si conviene nelle udienze formali, li osserva e, mentre si avvicinano lentamente navigando il pavimento di marmi intarsiati, si accorge di quanto si stesse sbagliando con la prima impressione.
La dama, evidentemente la figlia del Granduca, è tutt’altro che una dama, malgrado l’abito da corte che indossa, malgrado il diadema in cui spicca un rubino grosso come il pollice di un uomo: è una ragazzina, appena adolescente, forse, magra e sottile come un giunco. Ha un viso ovale, e grandi occhi blu scuro dall’aria severa. È graziosa e potrebbe persino diventare una donna attraente malgrado la pelle pallida e i lunghi capelli di un biondo chiaro molto plebeo.
Le due ancelle alle sue spalle sono invece due giovani donne dai capelli corvini, una in particolare dalla carnagione più scura e dagli occhi neri e brillanti attira piacevolmente gli sguardi.
Il paggio è anche lui solo un ragazzo, dall’aria serissima e preoccupata, si guarda in giro, come a tentare di soppesare chi ha di fronte con la limitata esperienza della sua età. Alla cintura ha un kajar, un coltello a doppio filo dalla lama larga e robusta tipico della zona.
La ragazza arriva ai piedi del trono. Gli occhi sono decisi, la bocca, piccola e graziosa, è serrata in una linea sottile. Non bada ai compagni che fanno ala intorno al trono. I suoi occhi sono fissi su Barid, il volto immobile, ieratico: conosce bene anche lei come comportarsi formalmente.
Gli sguardi del principe mezzosangue e della figlia del Granduca si incrociano quasi a sfidarsi, quasi a contestare il suo diritto a sedersi su quel trono, ma c’è poco da fare, è lui ad avere cinquemila armati dentro le mura, è lui ad essere circondato da uomini fidati.
È lei a fare la riverenza, elegantemente, con la schiena dritta, senza piegare il capo. Ancelle e paggio la imitano, piegando, loro sì, la testa.
“Cugino Barid, sono lieta di vederti.” La voce è giovane e sottile.
Che fare di ciò? Come mossa di apertura non è male: reclamare la loro parentela e la protezione e il rispetto dovuto al sangue reale che scorre anche nelle sue vene. Barid, nell’osservarla, sente uno strano disagio, una sensazione quasi di dejà vu.
“Ti do il benvenuto Cugina Yaranno, ti ringrazio di essere venuta a salutarmi.”
“Come potevo non venire a salutarti, quando sei venuto tu a trovarci. Non è solo un piacere, ma un dovere per me come Signora di questo castello e figlia di mio padre, il Granduca di queste terre.”
La sensazione di dejà vu si risolve in un attimo: gli ricorda la Regina. Fisicamente non potrebbero essere più diverse, ma l’estraniante sensazione di incongruità tra il formalismo delle situazioni e dei modi, la rigidità dei portamenti, dei vestiti e il viso giovane e aperto è esattamente la stessa.
La Regina sa come incantare gli astanti, a malapena ventenne, il viso velato, coperta dai broccati dei sacri paramenti reali. Lo scricciolo di fronte a lui fa lo stesso, e basta uno sguardo ai suoi amici per capire che funziona: non ci sono atteggiamenti strafottenti o sorrisetti ironici come al loro solito: sono seri, silenziosi e incantati.
Nemmeno lui rimane indifferente, ma sa come rompere l’incantesimo. Lo aiuta la sicurezza, quasi arroganza della ragazzina, che lo disturba e lo irrita.
“Ringrazio la tua personale gentilezza, Cugina.” La voce si indurisce nello sferrare il colpo. “Ma devo purtroppo ricordarti che non sei più Signora di questi luoghi che ora, per diritto di conquista, spettano alla nostra Sovrana, e non a te. Allo stesso modo tuo padre ha rinunciato ai suoi titoli e ai titoli della vostra famiglia nel momento stesso in cui ha compiuto il sacrilegio di ribellarsi.”
I toni sono taglienti, dimostrano la sua irritazione di fronte a quella specie di imitazione, forse troppo.
La ragazza di fronte a lui accusa il colpo, ma non si scompone. Non cambia espressione.
“Se così è, spero di poter almeno essere Tua ospite, Cugino.”
Stupida, stupida arrogante. Si sporge in avanti.
“Ti sbagli anche su questo Cugina. Non puoi essere nostra ospite, in quanto figlia di un traditore, morto nel tentativo di ribellarsi, sei piuttosto sotto la nostra custodia in attesa del giudizio reale.”
L’incantesimo si rompe. La schiena e le spalle si piegano e si rattrappiscono, la testa si china. Gli occhi si abbassano sul pavimento. Adesso non ricorda più la Regina, ma una ragazzina che per giocare si è messa gli abiti troppo grandi della madre ed è stata rimproverata.
Il cagnetto, in braccio all’ancella, capendo i toni se non le parole, lo guarda fisso, le labbra arricciate in un ringhio. Il paggio capisce anche le parole e lo fissa anche lui, nei suoi occhi c’è rabbia, la mano è scesa alla cintura vicina all’impugnatura del coltello. Chissà chi dei due è più pericoloso: il cagnolino o il ragazzino. Basta lanciare uno sguardo, comunque, per piegare entrambi.
“Ora ritirati nelle tue stanze.” È un ordine. “Ti convocherò io.”
Gli occhi blu non sono più duri, le labbra non sono serrate, c’è smarrimento nello sguardo. Si guardano, non dice nulla. Sente il disagio che corre nella sala, è una magia diversa, ma pur sempre una magia pericolosa. Quella della fanciulla in difficoltà, ci sarebbe quasi da aspettarsi che uno dei suoi compagni provi a difenderla.
Meglio chiudere questo incontro. Barid le concede solo una voce marginalmente più gentilmente.
“Vai ora, Cugina, verro io da te.”
La riverenza è comunque perfetta, si gira e lascia la sala nel silenzio.
Alla chiusura delle porte si sente come un sospiro. Prima che qualcuno apra bocca, prima che qualcuno dei suoi amici possa esprimere un dubbio, è lui a parlare.
“Sorvegliatela. Visto che non è scappata, evitiamo che lo faccia ora.” Sceglie uno dei suoi compagni con uno sguardo. “Metti di guardia qualcuno che non si lasci incantare dagli occhioni di una duchessina… o da qualcosa di più sostanziale, le ancelle mi sembrano sveglie e pratiche.” Una pausa. “Tenete d’occhio il ragazzino è così giovane da essere di sicuro pronto a qualsiasi cretinata.” Un cenno di assenso. Riprende “Poi.. dove eravamo rimasti?... sì.” Fissa il compagno che ancora tiene sottobraccio il libro mastro. “Fai subito distribuire i premi e le paghe, almeno un anticipo. Che i soldati abbiano i soldi per pagarsi pasti, vino e donne, senza creare problemi. Fai pubblicare il solito editto che tutto deve essere pagato e che le punizioni sia note.”
“Come uso?”
“Sì, l’uso: frustate per i furti, decapitazione per l’assassinio, impiccagione se stuprano la moglie o la figlia di un borghigiano. E, ultima cosa, poi la finiamo qui: altro editto. A nome della Regina. Che sia distribuito in città e in provincia: da.. diciamo dopodomani, per 7 giorni terrò udienza in questa sala e chiunque sia colpevole di tradimento potrà venire qui a rendere omaggio alle insegne reali e tornare nella pace dell’Autocrate, il perdono completo. Solite formule, solite clausole. Provvedete sia presente qualche sacerdote per benedire il tutto.”
Si stiracchia e riappoggia faretra e arco a terra.
“E ora? Doverosa ispezione di cucine, dispense e soprattutto cantina?”
Nessuno sembra contrario.


È la ragazza districandosi da lui a svegliarlo. Ancora prima di aprire gli occhi, la riafferra per un fianco abbondante e se la ritrascina addosso senza resistenza, viene ricompensato con la vista ravvicinata di un seno generoso, ci schiocca un bacio e solo poi chiede, la voce ancora impastata dal sonno.
“E dove vai? Gioia mia.”
La ragazza lo guarda dall’alto in basso a cavalcioni sulle sue gambe. Una massa enorme di riccioli scuri e un sorriso allettante.
“C’è qualcuno alla porta, Signore.”
Solo adesso si accorge del bussare.
Voce roca, ha bevuto decisamente troppo: “Avanti.”
La porta si apre, la ragazza questa volta si libera, a forza, con un urletto indignato e si copre avvolgendosi nella coperta, lasciando lui nudo.
Per fortuna è uno dei suo i compagni e non si scompone. Sorride ironico inarcando un sopracciglio. Visto che non è solo si mantiene circa sul formale.
“I miei omaggi a Vostra Grazia. Mi scuso di dovervi disturbare.”
“Già, a quest’ora.” In effetti non ha idea di che ore siano, ma gli sembra fin troppo presto. “Che succede, un esercito nemico è su di noi? È apparso qualche demone che pretende obbedienza e sacrifici?...”
L’altro lo interrompe.
“La Vostra ospite ha fatto i capricci…”
“Capricci?”
“Ha chiesto di lasciare i suoi appartamenti per recarsi alla cappella del castello per una orazione mattutina, Vostra Grazia.”
“Per tutti i Santi, dov’è il problema?”
“L’ordine non sembrava questo. E il Decurione non sapendo che fare a chiesto a me.”
Che idiozia.
“Gli ho detto di lasciarla andare. È pur sempre del Sangue. Ho sbagliato, Vostra Grazia?”
“No, hai fatto bene, può girare per il castello, ci mancherebbe. Mica voglio la rinchiudiate nelle secrete. Ho detto solo di non farvela scappare.”
“Ho mandato il Gatto con lei.” Uno dei Decurioni più fidati. Un pendaglio da forca, ma un veterano capace e devoto. Di certo non il tipo da lasciarsi commuovere da una ragazzina, o distrarre dalla tetta di una ancella.
“Bene, così. La raggiungerò nella cappella più tardi. Dopo colazione, tanto tra quartine e cinquine del mattutino il tempo dovrei averlo.”
La porta di richiude. Lui rimane seduto sul letto un attimo per recuperare lucidità e si rigira verso la ragazza.
“Che dolore, mi sa che non avrò altro tempo per te stamattina. Mia bella Aksino.”
Lei distesa, il lenzuolo tirato fino alla gola, una coscia soda che spunta sul lato, lo guarda, con una risata ricca e profonda.
“Hax’ino” gli fa con la pronuncia corretta del suo nome.
Lui sorride, è dalla sera che si prendono in giro a vicenda.
“HA.. HAk… ahhh niente. Non riuscirò mai a pronunciarlo sai? Mi sa che dovrò trovarti un soprannome.”
Lei ride di nuovo. Si vede il bel seno ballare sotto il lenzuolo.
“È bella la vostra pronuncia. Mio Signore.” Chissà perché non aveva dubbi che le andava bene comunque. “Sembra il nome di un gran signora con l’accento che gli date.” Beh forse da gran signora no, per niente anzi. Ma perché deluderla?
Si alza, dalla borsa le prende due Pezze d’argento e gliele stringe nella mano.
“Ora vai via. Magari stasera faremo il bis.” Perché no. la ragazza e piacevole, e ci sono un paio di aspetti da esplorare in maniera più completa.
Lei sguscia via dal letto, sgambettando, gran bella vista. Lo bacia con tutto l’ardore che può dare la ricca, inaspettata, somma di due Pezze, e gli sorride mentre raccoglie le sue cose.


La Cappella Palatina è imponente quanto la Sala del Trono. A pianta ottagonale è grande quasi come il Tempio Maggiore di una città di buone dimensioni. Ha preso il posto di uno dei torrioni laterali durante qualche rimaneggiamento dei secoli precedenti.
La cupola altissima è degna di ammirazione, i finestroni illuminano l’interno, facendo scintillare le cornici dorate delle raffigurazioni dei 64 Spiriti Maggiori che sembrano sorvegliare chiunque entri.
All’entrata trova il Gatto, pantaloni a sbuffo, corsetto di pelle, la solita affidabile faccia spiacevole marcata da una cicatrice sulla guancia (battaglia di Gunna, un colpo di sciabola, se lo ricorda bene, erano nello stesso quadrato). Per rispetto al luogo sacro, con le divinità non si scherza, si è tolto il cappello e lo ha lasciato su una panca accanto a lui.
Sciabola, coltellaccio e una pistola (sicuramente carica) adornano la cintura, quelle non le ha lasciate.
Saluta l’arrivo di Sua Grazia, con un pigro cenno del capo, il massimo che si possa ottenere da lui e ottiene in cambio un ammicco, subito distoglie lo sguardo tornando a puntarlo all’entrata di una delle cappelline laterali.
Il paggio è lì, vestito come la sera prima, senza coltello questa volta. Occhieggia a sua volta il Gatto, disagio e preoccupazione evidenti. Un sorcetto tenuto d’occhio da un gattaccio di strada.
Barid lascia anche lui il cappello entrando, si inchina in direzione dell’altare centrale dell’Uno, per poi accostarsi alla cappella. Il paggio si scosta. La Duchessina è lì inginocchiata con le ancelle a recitare.
La cappella, era in effetti prevedibile, è quella della Dama Asa delle Quattro Vite, a chi dovrebbe rivolgere le sue preghiere una ragazza della sua età?
L’interno profuma di cera e incenso. Dietro il piccolo altare ci sono le cinque immagini di pragmatica della Dama: sono evidentemente dello stesso autore, uno stile piacevolmente antiquato.
Ci sono le quattro vite: la Giovane Vergine, la Madre del Demone, la Monaca Penitente e la Santa alla Corte dei Santi. Al livello superiore il Martirio. È abbastanza stilizzato, il sangue non abbonda: il corpo nella rozza tunica monacale giace decapitato sul suolo della foresta, la testa è poggiata su un tronco in secondo piano, il capo rasato, gli occhi aperti fissano gli astanti, la bocca è atteggiata a un sorriso dolce e malinconico.
Molto bello.
Le recitazioni e le preghiere non durano ancora a lungo, i tempi li ha calcolati bene.
Le tre donne finiscono, compiono l’ultimo inchino, a cui lui si unisce, e si alzano.
“Cugino, Buongiorno.” Riverenza. È vestita più semplicemente questa mattina, la gonna lunga e il corsetto stretto accentuano la sua altezza e il suo fisico minuto. I capelli sono intrecciati e nascosti sotto un velo bordato di un brillante colore rosso reale.
“Cugina, ti saluto. Sono venuto a scusarmi con te, per l’incomprensione di questa mattina.” Una pausa poi si arrende. “E per essere stato troppo duro e scortese ieri sera.” Lei accetta nobilmente con un cenno e un sorriso. “Ti prego di farmi sapere qualunque altra cosa ti possa servire.”
Si avviano uno a fianco dell’altro verso l’uscita della Cappella. Lei ringrazia, banali scambi di cortesie formali. A un certo punto però sembra fare un gran respiro, si irrigidisce, le piccole mani si stringono a formare piccoli pugni.
“Due cose in verità vorrei chiederti, Cugino, spero che tu voglia concedermele.”
“Sono in mio potere?”
“Sì, penso di sì.”
“Dimmi allora.” Barid, si guarda bene dallo sbilanciarsi, o fare promesse al buio. Le promesse nel suo ruolo sono sempre pericolose. È l’amato fratello della Regina Autocrate, può tutto, ma tutto viene con un costo, anche per lui.
La ragazza parla senza guardarlo.
“Posso dare sepoltura a mio padre e ai miei fratelli? Ti sarei grata, se potessi farmi riavere i loro corpi.”
Si fermano sotto una delle grandi arcate, ancelle e paggio, rispettosamente, un paio di metri indietro. Lei continua evitare di guardarlo, i 64 spiriti li fissano. Dei, Spiriti, Demoni e Santi ascoltano. Sa come e dove porre le sue domande la ragazza. Cosa mai può dire in questo luogo di fronte a loro?
“Te li farò riavere e avranno sepoltura.”
“Completi. Anche le loro teste?”
Questo era molto, per quanto volesse essere pio e rispettoso, almeno qui dentro. Ordini e tradizioni andavano rispettati, le teste dei traditori andavano esposte.
“Le farò tornare qui, e saranno sepolte con i corpi, appena sarà in mio potere, la cosa può soddisfarti?”
La ragazza alza il viso e lo scruta
“Immagino di non poter chiedere di più, vero?”
“No, Cugina, scusatemi.”
All’improvviso, lei annuisce e sorride:
“Grazie, Cugino, mi levi un grande peso dal cuore. Mi fai felice. Lo sapevo che non eri né cattivo, né malvagio.”
“Bene sono contento.” Non si può far a meno di ricambiare il sorriso di fronte a un complimento così particolare. “Cos’altro posso fare per te?”
“Una sola altra cosa, ma sono sicura è molto più facile. Gradiresti pranzare con me, se puoi? Apprezzerei la tua compagnia.” Sorride, occhi pudicamente abbassati la perfetta rappresentazione della giovane dama.
“Sarà un piacere per me, Signora. Oggi stesso? Bene. Allora è deciso. Immagino che in cucina conoscano bene i tuoi gusti.”


Fu Hax’ino, o Aksino, che dir si voglia portar un'altra anfora di vino e a riempirgli le coppe. Piegandosi la scollatura generosa era in bella vista e sorrise, invitante, a Barid prima di allontanarsi, portando via l’anfora vuota.
Sono seduti in una delle nicchie vicino al camino lui e uno dei Compagni, quello della cui astuzia si fida maggiormente e che, finito di bere un lungo sorso, schiocca le labbra e rompe gli indugi.
“E quindi?” chiede.
“Quindi cosa?”
“Quindi cosa volete da me? Cosa vuole la Vostra eccellentissima Grazia? Ditemi. State qui a perdere tempo a bere con me, quando avete quel gran bel paio di tette,” chiaro di chi parlava, “che sospira con passione ogni volta che Vi guarda… Avete sempre una gran magia con le donne.”
“Gli lascio regali che valgono la metà di una dote.”
“Ottima magia. Principesca.” Altra sorsata e cenno di approvazione. “Ma ora rispondetemi, come posso servirvi? Eh?”
“Ho bisogno di parlare.”
“Beh va bene, immagino che ci si distragga e si perda il filo del discorso se si prova a parlare con lei, io mi distrarrei. E di cosa vogliamo parlare? Donne, cavalli o battaglie?”
“Non so che fare.”
“In fatto di donne, di cavalli o di battaglie?”
“Siete odioso, amico mio.”
“Vostra Grazia, me lo ricorda spesso. Riprovo a indovinare: Vostra Cugina, la figlia del Granduca?”
“Sì, Yaranno. Ci ho parlato oggi, abbiamo pranzato insieme.” L’altro non replicò, e dopo un attimo di silenzio Barid continua. “A quanto pare l’avevo già incontrata, anche se non me lo ricordavo, lei sì invece. Venne a corte anni fa col padre. La sera ci fu un gran ballo e lei mi ha raccontato che fui io che li guidai, lei ed altri bambini, fino a una delle gallerie segrete del padiglione centrale da cui si poteva spiare di nascosto il Salone e vedere la gente che ballava. Dice che le feci fare pure un giro di danza.”
“È vero?”
“Bah… il fatto me lo ricordo, lei in particolare in verità no, doveva essere veramente solo una bambina tra tanti. Ero scudiero di corte a quel tempo, c’era una qualche udienza e mi ricordo mi rifilarono tutta una masnada di ragazzini e ragazzine. Li feci davvero sgaiattolare la sopra a spiare. Mi sembrava divertente”
“Quindi?”
“Anche lei ha perso la madre da piccola.”
“Toccante, voleva qualcosa?”
“I corpi del padre e dei fratelli, per dargli sepoltura nelle cripte. Gliel’ho concessi… ho dato ordine, anzi domani controlla tu…”
“E che altro voleva?”
“Parlare...”
“E di cosa? Quanta reticenza…”
“Mi ha raccontato che è promessa a uno dei figli di Balielly. Mi chiedeva se, secondo me, la vorranno ancora, o se ora che non è più figlia di un Granduca il matrimonio salterà. In quel caso se saremo noi a Corte a trovarle uno sposo.”
Una pausa. Il silenzio si prolunga, ancora e ancora, entrambi sembrano fissare le loro coppe senza voler riprendere a parlare.
“Ma davvero? Cos’è uno scherzo macabro?”
“No, non vi sto prendendo in giro io, e non mi stava prendendo in giro lei a me. Era sincera. È solo una ragazzina.” Intercala una profanità più adatta a un accampamento militare che alla sala di un castello. “Non so che fare. La sua, l’altro giorno, non era né arroganza, né tanto meno disperato coraggio… era… era pura incoscienza.”
“Cosa le avete risposto?”
“Niente ho ascoltato, sorriso, glissato. Che dovevo dirle? Cosa mai dovevo dirle? Forse: non ti preoccupare piccola mia, non è un problema. La tua sorte è finire decollata per esporre la tua graziosa testolina sui cancelli del Palazzo di Giustizia accanto a quelle di tuo padre e dei tuoi fratelli? Niente matrimoni di cui darsi pena.”
“Argomento di sicuro poco indicato per conversare civilmente a tavola.”
“Odioso.”
L’altro sorride di nuovo, ma è un sorriso amaro e si sporge verso di lui abbassando la voce.
“Chiamo il Gatto, ve la portiamo in un bosco e torniamo solo con la sua testa. Risolto.”
Un gesto di diniego.
“È di sangue reale.” Risponde Barid, con altri basterebbe dire questo, ma l’altro, dopo un attimo di silenzio, risponde.
“Non ho paura di maledizioni, o che qualche Demone vostro antenato venga a prendermi. Lo affronterei spada in pugno e vediamo come finisce.”
“No, non dubito del vostro coraggio, ma non è comunque cosa che posso lasciar fare.” Uccidere qualcuno del sangue non era cosa da prendere alla leggera, il Sangue era sacro e non poteva essere sparso da chiunque.
 “Non dovevate parlarci, lo sapete anche voi. Adesso vi trovate di fronte a una persona reale, che non vi ha fatto nulla, che magari è pure simpatica, una ragazzina che non merita certo questa sorte, vero? Ma cosa dobbiamo fare è pure questo molto chiaro.”
“In nome di tutti i miei antenati Demoni, non è facile. La ragazzina è innocente, dannatamente stupida, ma innocente.”
“Cosa mai significa essere innocenti, ditemelo Voi? A che serve esserlo? Quando abbiamo lasciato Città del Sale al saccheggio perché aveva resistito, quanti innocenti sono morti? Quante ragazzine innocenti hanno fatto fini peggiori quel giorno? E l’ordine era vostro ed era mio.”
Il tono è duro, la risposta non è da meno.
“Follia, c’erano buone ragioni per fare quello che è stato fatto, e le sapete. Qui? Che utilità ne viene? Nulla. È una ragazzina, illusa, senza contatti, alleati, appoggi e denari. Senza cattiveria.”
“Ahh adesso capisco, o siete diventato folle voi, o volete semplicemente che vi ripeta tutto quello che già sapete.”
“Bene, allora fate l’odioso e ditemelo.”
“Per prima cosa avete di sicuro un ordine della Autarca, vero?” Aspetta che l’altro annuisca. “Uccidili tutti e riportami le loro teste, questo vi ha detto, no? È non lo ha detto solo per essere stata offesa, la nostra Regina è saggia, è saggia e donna ed è ben cosciente di quello che serve che voi facciate. La ragazzina è pericolosa anche da sola, anzi da sola lo è molto più del padre. Non sono i soldi, non sono gli alleati, non è nemmeno la malizia, la cattiveria, anzi tutto il contrario. Lo sapete meglio di me, l’unica cosa che le serve è quel goccio di sangue che condivide con voi e la Regina. Il Granduca aveva una legittima pretesa sul trono. Ma per fortuna era uno sciocco ambizioso. Incapace. Lo abbiamo beccato a braghe calate, e portato alla sua distruzione.
La ragazzina è peggio, lei non ha ambizioni per sé e non ha nemmeno potere lei stessa e questo la rende lo strumento perfetto per chiunque invece abbia entrambe. È una semplice bandiera, per chiunque vi voglia male. E ce ne sono tante di persone ambiziose, che odiano voi e odiano la regina. E sono più furbi e capaci del defunto Granduca. Lei è lo strumento perfetto per le loro ambizioni. Le ambizioni di tutti quelli che non ne hanno titolo, e sono tanti, lo sapete meglio di me.”
“Un giocattolo.”
“Uno giocattolo, certo. Non per malizia, sono convinto del Vostro giudizio, sono sicuro che in lei non ci sia cattiveria, malizia o qualunque cosa. Ma questo non cambia la situazione è inevitabile che succeda quello che deve succedere. È….. l’inevitabile svolgersi degli eventi. Non può andare diversamente, perché questa è la natura dell’uomo e del mondo.”
“Bene anche voi filosofo, a quanto pare.”
“Io sono quello che Voi mi comandate di essere. È inevitabile che degli ambiziosi vedano la sua utilità, è inevitabile provino a usarla, ed è inevitabile quello che noi dovremo fare, per evitare che la, a sua volta, inevitabile accada. Non c’entra l’innocenza, non c’entra la bontà, non c’entra la sincerità. Noi singoli non abbiamo voce in capitolo, agiamo sulla base di fatti inevitabili. Le nostre scelte sono futili, non cambiano la realtà delle cose, la logica del potere ha le sue regole, noi possiamo solo decidere quali esseri umani reciteranno la loro parte e quali invece usciranno di scena. Ma le parti sono tutte scritte.”
Si riempirono nuovamente le coppe.
“Le scelte che si potevano fare le avete già fatte, quando avete giurato di proteggere vostra sorella, la nostra Regina, contro tutto e contro tutti.” Sorride, ricordando. “E veniste a svegliarmi in piena notte a chiedere il mio aiuto e dei miei fratelli per fare entrare a Palazzo il regimento della Guardia Piccola e metterla al sicuro…. E io avevo più affetto per Voi che buon senso e accettai di rischiare la pelle, e come la rischiamo la pelle. Un suicidio.”
Porta alle labbra la coppa e le beve fino in fondo di un fiato.
“Finito, parlare di queste cose fa venir sete. Tesoro bello, porta un'altra anfora. Facci felici Hax’ino.” Lui, a quanto pare, azzeccava il giusto accento.
La ragazza, che aspettava in un angolo della stanza, arriva immediatamente, con nuovo vino, ancheggiando e sorridendo. Riempie le coppe. Lascia l’anfora in mezzo a loro.
“Posso fare altro per voi Signori?”
“Oh, no, tesoro, per me null’altro” Sorriso malandrino. “Caso mai altro te lo chiederà Sua Grazia, tra poco.” Le fa l’occhietto facendola ridere. Poi si rivolge di nuovo a Barid. “I vostri… scrupoli… sono… nobili, non rassegnarsi, io credo, mantenga la nostra umanità, ma sono futili. Amico mio, è inevitabile, prima o poi sarà o lei o voi. Agendo adesso eliminate un rischio, salvate vite, addirittura.” Sorride, mesto. “Ma tutto questo lo sapete meglio di me, volevate solo sentirvelo dire. Per sentirvi meno solo.”
“La solitudine… ahhh non c’è solitudine se si hanno buoni amici.” Le coppe vengono alzate una ennesima volta. “La potrei semplicemente chiudere in monastero?” Propone all’improvviso. “E un’alternativa logica, e le risparmierei la vita. Una vita da uccello in gabbia, vero, ma una vita.”
“Non so cosa vi direbbe la Regina, voi forse siete l’unico a poter disubbidire a un suo ordine…, ma vi dico cosa penso io: i capelli tonsurati ricrescono. Le porte dei monasteri si aprono. No, non è un’alternativa, è un’illusione.
Una pausa poi ripete fissando la sua coppa.
“Posso farlo io. Veramente. Per me non ne è nessuno.”
“No, non voglia che voi vi macchiate di un sacrilegio. Mi prendo le mie responsabilità. Devo. Sarebbe da vigliacchi. Farlo ricadere su di voi o su qualcun altro…. nascondersi dietro di qualcun altro? Non lo farò. Le dirò cosa le aspetta, è del Sangue, saprà… saprà… insomma.”
“Cosa avete? Perché tutta questa… attenzione. Vi ha colpito così tanto? Cosa ha la ragazza?”
“Mi ricorda la Regina… troppo…, non possono essere più diverse fisicamente, lo so.” Previene. ”Ma sono uguali, entrambe forzate a recitare una parte che non hanno chiesto, una parte mortale.  Ne uccido una per proteggere l’altra, ma sono solo un uomo mortale e non so cosa riserverà il futuro. Come faccio sapere se quello che faccio è giusto?”
“Ora altro vino, poi dimenticate tutto tra quelle tettine che vi aspettano. Ci penserete domani.”


Non ci pensò domani. La prima udienza per ricevere i giuramenti di fedeltà andò oltre il previsto.
Non arrivarono, come si pensava, solo i principali nobili della provincia, scaglionati nei giorni a seconda della distanza e dal tempo necessario per percorrerla, piuttosto la mattina del primo giorno la folla era tale che fu necessario schierare i soldati e scudieri per tenerla sotto controllo.
A quanto pare metà città si era presentata: Aristocratici, borghesi, e popolani. Sembrava che la gente, passata la paura, avesse capito che gli eserciti reali non erano lì per saccheggiare e far pagare il tradimento del Granduca alla popolazione e ora tutti erano ansiosi di farsi vedere e di vedere il famoso Gran Bastardo. Tutti con gli abiti della festa.
I due Prefetti cittadini vennero frettolosamente reclutati per far ordine, regolare le precedenze e garantire le dovute introduzioni. I programmi che si erano immaginati radicalmente modificati.
Le principali famiglie della città vennero invitate a un pranzo (preparato in gran fretta), i borghesi tirati a lucido ed ebri di tanto onore ebbero il privilegio di una presentazione a Sua Grazia nella sala del trono (con momenti di rara commedia, tra inchini malfatti e riverenze traballanti), mentre per i popolani ci fu un saluto dalla balconata e poi, visto che non bastava, una caracollata improvvisata per la via principale della città dal castello alla piazza del mercato e ritorno, traboccante di gente, e questa volta acclamante.
In definitiva un successo, al di là di alcune situazioni al limite del ridicolo e altre al di là della noia sopportabile da un essere umano (di sangue reale o plebeo che fosse), la provincia sembrava più che contenta di essere in pace con la Regina e passata la sbornia di ambizione del defunto Granduca sembrava che tutti volessero solo essere lasciati a vivere la loro vita, a “prosperare” come disse nel suo brindisi a pranzo uno dei Prefetti. E alla prosperità e alla pace reale si brindò e alla lunga vita della Regina e Autarca e a quella di suo fratello il Primo Giudice.
Al Granduca, ai suoi figli morti sul campo di battaglia, o all’unica sua figlia ancora in vita nessuno fece nemmeno un accenno.

“…. Ho quindi deciso di portare con me al mio ritorno alcune delle sculture che adornano la sala del trono, ritengo possano essere una piacevole aggiunta nel Salone di Gala del Palazzo Orientale, sono sicuro le apprezzerai.”
Sciocchezze, su carta si potevano mettere solo cose simili: sulla situazione politica, su come avrebbe rimandato indietro al più presto uno dei regimenti di fanteria per semplificarsi la logistica, ma non poteva certo confessare quanto gli mancasse e quanto gli pesasse starle lontano, questo lui e la Regina se lo sarebbero detti a voce, non appena si fossero rivisti, ma non erano cose da affidare a una lettera.
Con la coda dell’occhio, scorge Aksino seduta sul bordo del letto, le mani incrociate in grembo, che lo fissa. Si gira verso di lei.
“Ti sto annoiando.” È una affermazione.
Lei risponde con un sorriso e ovviamente nega. Diritto di annoiarsi lei non ne ha.
“No, mi piace vedere le persone che scrivono. Le vostre parole saranno lette da qualcuno lontano, o magari rimarranno per il futuro. Deve essere bello saper scrivere. A chi state scrivendo?”
“Alla Regina.”
Gli occhi di Aksino divengono improvvisamente enormi mentre le bocca si apre in una silenziosa espressione di meraviglia. In un attimo è in piedi: compie un curioso balletto di indecisione, al ritmo di un passo avanti, uno indietro, due in avanti, che la porta allo scrittoio. Una mano scatta in avanti, le sue dite sfiorano la pergamena. È solo un secondo, ritira la mano, nascondendola dietro la schiena e fa due rapidi passi indietro.
“O santissimi spiriti, la Regina la toccherà?” la mano riappare da dietro la schiena se la fissa, come stupefatta.
Barid non può fare a meno di sorridere.
“Si gioia mia, la Regina molto probabilmente prenderà in mano questa lettera.”
Lei quasi saltella, tenendosi la mano. Una risata nervosa.
“O santissimi spiriti!”
“Brucia?” scherza lui. La ragazza diviene improvvisamente seria, si riguarda la mano e poi scuote la testa senza parlare, guardandolo preoccupata. Lui scoppia a ridere.
“Mi state prendendo in giro!” Protesta lei.
Barid le prende le mani tirandosela vicino.
“Ti sei forse scottata a toccare me?”
“Ma lei è la Regina! Io non avevo mai nemmeno visto qualcosa che la Regina avrebbe preso in mano! Non è vero che la Regina non si può guardare in volto?”
Sembra diventata una bambina e non la ragazza spudorata che lo aveva allietato nelle ultime notti.
“Eppure io brucio molto più della Regina.”
Il richiamo al suo ruolo è sufficiente a spingerla a baciarlo, ma nei suoi occhi continua a leggersi lo stupore.
“Voi prendete in giro pur la Regina!” Cos’è? Paura, meraviglia, forse indignazione.
“Privilegio fraterno.” Taglia corto, lo scherzo era stato più che sufficiente. “Ora, devo andare a parlare alla Duchessina.”
Fa per alzarsi, ma lei non si muove esitante e dopo un attimo di esitazione lei lo blocca.
“Ma è molto tardi!” Si guardano. “La Signora Duchessina sarà già nelle sue camere per coricarsi.”
“A quest’ora? Che ne sai tu?”
“Io penso di sì.” La risposta è esitante.”Io…”
“La conosci bene?”
Lei evita il suo sguardo. “No, non bene mio Signore. Io…”
“Però lo pensi…”
“Io.. scusate mio Signore, io…”
“Tu parli tanto gioia mia…” La ragazza continua a evitarne il suo sguardo. “Cosa pensi della Duchessina?” Finalmente lo guarda, ma non apre bocca. “Dimmi, sono curioso…”
Gli occhi di lei si riabbassano e inizia a parlare, lentamente parola dopo parola, in punta di piedi.
“È una brava Signora… è gentile con tutti… anche con me…. Ed è sempre generosa… non so…, Signore, ecco…io non la conosco bene… è molto bella.”
Tace di nuovo.
“Comunque ti piace…” Lei annuisce. “bah…. Si ti capisco. Vabbene ci sarà tempo domani mattina, anche per completare la lettera. Ora badiamo a noi.”
Aksino sembra sollevata.


Non era nemmeno l’alba quando lo svegliano, addormentato tra le braccia morbide di Aksino.
Questa volta non bussano nemmeno prima di entrare.
“Vostra Grazia, ha provato a fuggire.”
Pleonastico precisare di chi si parlasse. Li manda via, si siede sul letto e si inizia a vestire, quello che stava per succedere andava affrontato con gli abiti adatti. La ragazza dietro lo osserva in silenzio. Lui non si volta a guardarla finché non è pronto, gli stivali ai piedi.
Le mette in mano le solite due pezze. Le sorride, fissandola negli occhi. Dovrebbe, ma non è arrabbiato, solo tremendamente triste.
“Avresti dovuto far finta di essere sorpresa quando mi hanno dato la notizia. Sai?”
Interrompe un balbettio di scuse.
“Non sono adirato, non con te.” Le prende il mento con una mano. “Ma la prossima volta quando sei intorno a persone importanti non origliare e soprattutto non riferire ad altri di quello che senti. Qualcuno meno tollerante di me potrebbe farti tagliare la lingua o forse tutta la testa.” Lei ammutolisce. “Ora vai.”
Non se lo fa ripetere. La osserva scappare ancora avvolta in un lenzuolo, le sue monete strette in una mano, gli abiti nell’altra.
Non sarebbe stata una bella giornata.


I primi raggi del sole stanno iniziando a filtrare dalle finestre, quando raggiunge gli appartamenti della Duchessina. Fuori delle porte è fermo un drappello di soldati guidati da uno dei compagni che lo segue dentro. Nell’anticamera altri uomini.
Nella grande camera da letto, il Gatto con altri due soldati armati.
Yaranno è seduta sul bordo del letto, indossa ancora un caldo abito da viaggio in lana pettinata, una mantella di pelliccia è appoggiata accanto a lei. Le due ancelle sono in piedi in un angolo dietro il letto, il più lontano possibile dai soldati. Strette l’una all’altra, anche loro con i vestiti caldi necessari per viaggiare in quella stagione. Avevano pianto, sia loro che la Duchessina. Si vede chiaramente dai volti.
Impiega un attimo per individuare anche il paggio: è a terra, contro un muro. Le mani legate e il viso tumefatto, un labbro spaccato. Ma è vivo, conoscendo il Gatto, quasi sorprendente.
Qualcuno gli inizia a spiegare la situazione, come dei cavalli e una carrozza li aspettassero fuori, come avessero trovato una via fuga, come una delle posterle fosse stata lasciata aperta. Di come, di sicuro, ci fossero complici in città.
“È vero quello che mi dicono: che mi decapiterete?” Barid si gira a guardare la Duchessina. Si era alzata e si era avvicinata. “È vero?” ripete.
Nella voce c’è una nota di paura, ma la tiene nascosta sotto l’indignazione, la schiena dritta e la testa alta, come il primo giorno. C’è forza in lei.
La guarda, guarda le due ancelle, il ragazzo a terra, i suoi soldati e il Gatto mollemente appoggiato a un muro come se fosse annoiato.
Un brivido gli corre lungo la schiena: aveva già visto quella scena nei suoi incubi. Identica, cambiavano solo i protagonisti. Lui a terra sanguinante, la rabbia impotente della Regina, la disperazione delle ancelle, gli uomini di un altro pretendente con le spade in pugno. La morte di fronte a loro. Sarebbe potuto finire tutto in quella maniera, facilmente.
Non era andata così, lui era stato più abile di quel paggio, la regina era stata più furba. Loro sono vivi, e lo rimarranno.
“È vero?”
“Sì e vero, Cugina, Yaranno. Vostro padre ha tradito.” E tu sei pericolosa, è vero, non lo sai non te ne rendi conto nemmeno quanto sei pericolosa. Basta poco per essere in posizioni invertite. E pure tu faresti quello che faccio io, per sopravvivere e far sopravvivere le persone a cui bene.
Gli sguardi si incrociano.
“Perché?” chiede semplicemente. C’è ancora orgoglio nella voce, ma sul fondo degli occhi si inizia a intravvedere la paura, la bestia, il terrore della morte, che spinge anche i più coraggiosi a voltare le spalle, lasciare scudo e spada e iniziare e scappare svergognandosi di fronte agli spiriti e agli antenati.
“Fuori tutti, lasciateci soli. Fuori. Tutti.”
C’è trambusto, le urla spaventate delle ancelle che venivano portate via e un ringhio del paggio, trascinato da due soldati.
Dal ragazzo arrivò la più banale delle minacce “Se le fate del male, io vi ucciderò” Non riesce nemmeno a completare la frase, interrotto da una ginocchiata brutale e ben mirata, ma quello che vuole dire è chiaro. Basta guardarlo per permettere a Barid di capirlo, questa volta il ragazzo non abbassa gli occhi, brucia di… rabbia, sì, passione, anche… ma soprattutto amore: erano così simili, erano tremendamente simili.
“Non gli fare male!” Lei lo afferra per un braccio. “Non li punite, promettetelo. Non punite chi mi è rimasto fedele. Hanno solo questa colpa.”
Lo sguardo del paggio dice tutto quando Yaranno lo guarda, ma lei non sembrava proprio rendersene conto. Povero stupido, folle ragazzino. Non solo meno abile di lui, a quanto pare, ma pure molto più sfortunato. Però simile a lui, troppo per volergli male.
Fa un cenno al Gatto. Basta per capirsi: non li toccare. Viene ricambiato con sguardo quasi rassegnato. Il Gatto è abituato alle sue nobili follie: per essere un aristocratico non è male, ma, seppur bastardo, è pur sempre un aristocratico, valli a capire.
Rimangono soli. Tra loro una calma irreale. Si siedono nelle sedute nel vano della grande finestra, garbati computi, lei si alliscia la gonna con le mani, distrattamente. La scena potrebbe sembrare banale e cortese: un gentiluomo venuto a intrattenere una dama recitando un poema che racconta antiche gesta, oppure a corteggiarla cantando una ballata o un sonetto d’amore, ma Barid non ha mano una sintra ben accordata per accompagnare la voce. Rimango in silenzio, serve a entrambi un attimo per riuscire a incrociare gli sguardi e ancora di più prima che lei inizia lentamente a parlare.
“Non punirli, me lo concedi? Sono gli unici che mi sono rimasti fedeli fino alla fine. Nessun’altro.”
“Non gli succederà niente, hai la mia parola. Né al loro né a chi vi doveva aiutare fuori di qui. Non indagherò neppure.”
Lei ha riacquistato il controllo del suo viso, ma le mani non riescono a stare ferme, gioca con i bottoni del vestito, per tentare di nascondere i tremori.
“Io non mi ribellerò mai a Sua Maestà, non sarò mai un pericolo, un nemico. Lo sai. Lo devo giurare?”
Scuote la testa. Come dirlo?
“Non è quello che puoi fare è quello che sei. Le azioni di tuo padre hanno risvegliato tutti quelli che si oppongo alla Regina, ora guarderanno a te.”
“Ma io non ne ho colpa!” si sporge in avanti e gli afferra una mano, la voce si alza, gli occhi chiari lo fissano enormi. “Io non ne ho nessuna colpa!”
“Lo so.” La guarda negli occhi dicendolo e le stringe forte le mani.
È questo a lasciarla senza parole, la voce dell’uomo di fronte a lei non sa di affermazione o di condanna, ma di resa.
Quando riprende a parlare la sua non è nemmeno una domanda. “Ma non conta niente.”
“Nulla può cambiare chi siamo. Lo sai. Tu sei la figlia di tuo padre.”
Lei libera le mani dalla sua presa, i pugni stretti.
“Tu hai potuto scegliere chi volevi essere, io non ho avuto nemmeno questa scelta. Tu hai potuto scegliere da che parte stare.”
È lui questa volta ad abbassare gli occhi per un attimo, poi decide di dire la verità, quella nascosta, quella che lo aveva reso quello che era.
“No, Yaranno, non ho mai avuto nessuna scelta, neppure io, ho preso l’unica strada che potevo prendere.”
L’unica scelta che poteva fare. Se avesse fatta una scelta diversa i colori del mondo sarebbero svaniti in cupo grigiore, ogni cibo avrebbe avuto il sapore della polvere, ogni suono sarebbe diventato stridulo, l’aria che respirava sarebbe stata gelida. Non poteva scegliere nulla di diverso e vivere.
Lei non lo capisce, forse neppure ci bada. Il suo viso è concentrato, gli occhi fissi nel vuoto. Sembra stia parlando a sé stessa, incredula di fronte a quello che si trova di fronte.
“Non c’è niente che io possa fare, possa dire, niente che io possa cambiare.” Si sposta i capelli che le sono ricaduti sul viso, la sua voce si fa sottile, cercando un qualche tipo di conforto. “Cosa dovrei fare, allora? Cosa devo fare?”
“Devi essere quella che sei. La figlia di tuo padre, una Nevrelly, una discendente dal Demone, porti il mio stesso sangue, lo stesso sangue degli Autarchi.”
“Ho paura, come faccio?”
Barid istintivamente le accarezza i capelli. Non è possibile trattenersi, anche questa è una magia che conosce: è la bellezza della eterna bambina dagli occhi grandi e dall’espressione stupita. Provoca la simpatia spontanea di chi sta di fronte, un istintivo desiderio di aiutare e proteggere, specialmente negli uomini, giovani.
Yaranno, è chiaro, manterrebbe questa bellezza negli anni, anche a trenta, quaranta o cinquant’anni avrebbe questo potere. Sì, diventerebbe una bella donna, a suo modo, una bellezza strana ed esotica.
Ma non succederà, non vedrà mai i suoi vent’anni e sarà proprio lui ad impedirlo. Si sente disgustato, non lo aiuta il pensiero che le scelte sono fatte, sono state fatte molto tempo prima e nulla può cambiarle.
“Controllala, la paura. Quella c’è sempre, non la si può mandar via, la si può solo dominare.” Questo aveva imparato, e questo le disse.
“Non so se ho questa forza.”
“Io credo di sì, ricordati chi sei. La forza c’è.”
Barid stesso non è sicuro di cosa sta dicendo e di cosa può dire, spera solo, vigliaccamente, se ne rende conto, che la ragazza di fronte a lui non scoppi a piangere rendendo il suo compito ancora più penoso e miserabile.
Lei alza la testa, la paura sembra di nuovo doma, almeno per il momento.
“Non ho fatto niente che meriti questo. Niente per cui io possa essere condannata. Non c’è giustizia in questo.”
“Non mi nascondo dietro la giustizia. Faccio solo quello che va fatto.”
Lei guardò fuori della finestra. Il sole stava sorgendo.
“Quando?”
“Io ti dico di non aspettare, aspettare aumenterebbe solo la paura.”
Lei non si volta a guardarlo, ma la sua voce diviene improvvisamente più fredda.
“Avete già il boia pronto?”
“Non c’è bisogno di nessun boia.”
Ora, sì, lo fissa in viso, stupita.
“Tu?”
“Chi altri, Cugina? Hai sangue reale. Nessuno può toccarti, sarebbe un sacrilegio. Qui ci sono soltanto io. E io non mi nascondo, Cugina, non mi nascondo e mi prendo le mie responsabilità.” Poi chiede. “Vuoi ti accompagni alla Cappella del castello?”
“No, ho già pregato stamattina. Avevamo chiesto aiuto agli Spiriti per oggi.” Un sorriso triste. “Credo che mi abbiamo già risposto.” Sembra finalmente arrivata sull’orlo del pianto a quel pensiero, ma, dopo un lungo silenzio, riacquisisce un contegno, si fissa un attimo le mani, appoggiate sulle gambe e poi chiede:
“Mi assicuri che sarò sepolta con mio padre e i miei fratelli?”
Lui annuisce.
“Farai un’offerta per me? E per loro? Posso contare su di questo?”
“Lo farò. Sarete accolti alla Corte dei Santi come meritate.”
“Grazie…” Parla lentamente soppesando le parole. “Hai promesso, che non punirai chi ha provato ad aiutarmi.”
“Sì, non farò nulla contro di loro. Hai la mia parola, sui nostri Antenati hai la mia parola.”
“Io volevo lasciare loro qualcosa, addirittura, posso?… c’è qualcosa che posso considerare mio da… lasciargli? Sono restati con me quando tutti mi avevano già abbandonato, potevano farlo anche loro, ma sono rimasti.”
“Dimmi, rispetterò i tuoi desideri, anche su questo.”
“I miei gioielli, vorrei fossero divisi tra le mi due ancelle, sarà una ricchezza per loro. Poi vorrei lasciare qualcosa ad Areth, il paggio, cosa posso lasciargli, a lui? Un premio?”
Barid tenta di non mostrare reazioni. Lei non si rendeva proprio conto che in quel povero ragazzo, Areth, c’era molto più che fedeltà.
“Lasciagli anche un tuo ricordo, Cugina, una sciarpa, uno scialle. Io gli regalerò un cavallo, un arco e una spada.” Sperando che un giorno non provi a usarli contro di me, pensa.
“Grazie, farò cosi, dì alle mie ancelle di trovare il velo di gala, è per lui. Posso chiederti un’ultima cosa, anche se è stupida?” Per un attimo sorride “Rufi il mio cagnolino…”
“Quello piccolino? Col pelo bianco e nero?”
“Sì lui, è scomparso quando ci hanno fermato i vostri uomini, credo sia scappato da qualche parte…”
La precede.
“È nel castello, lo troveremo, e avrà una cuccia calda, pasti abbondanti e tutte le attenzioni che merita. Prometto anche questo. Altro da chiedermi?”
 “No, non credo.” Prova a sorridere. “Non c’è altro. E ora? Cosa devo fare?”
Barid si guarda intorno, valutando il luogo, gli serve un minimo di spazio. Poi si alza, e va verso il centro della stanza.
“Vieni qui.”
Lei impallidisce.
“Qui? Adesso.”
“Qui, nessuno a parte noi, sarà veloce, non soffrirai. Sarà un attimo”
“Quanto vorrei odiarti.”
“Se ti può essere di conforto, fallo.”
“Non ci riesco…”
“Vieni qui, Yaranno.” Ripete tendendole la mano
Si alza, barcolla un attimo. Lo fissa, gli occhi enormi.
Un passo, due, un terzo con uno sforzo visibile
Poi si blocca: è veramente troppo da chiedere ad una ragazza così giovane, poco più di una bambina.
“No ti prego, non voglio morire.”
Si ferma lì in piedi, immobile a due passi da lui, una lacrima le riga il viso, poi un'altra. La bocca si contorce in una smorfia.
“Yaranno…”
“No, ti prego. Non è giusto, non voglio.”
È lui ad andare da lei. La ragazza non si scosta, non fa nulla per difendersi. Gli poggia solo le mani sul petto come a tenerlo a distanza di un passo, lui rimane lì come se le sue forze fossero davvero sufficienti a fermarlo.
“Un monastero.“ Balbetta lei. Iniziando a singhiozzare. “Prendo i voti. Mi raso i capo. Il monastero più lontano e sperduto. Tutti sapranno che sono morta, nessuno saprà dove sono. Lo giuro, non dirò mai nulla, nessuno lo saprà. Ti scongiuro. Pregherò per voi, per la Regina. Per favore.”
Barid china la testa, tace, le stringe le spalle e, alla fine, lascia cadere le braccia intorno ai fianchi.
“Va bene. Un monastero.”
Si guardano, è lei a fare un passo in avanti e ad abbracciarlo. Il viso affondato nel suo petto.
Anche lui la abbraccia sentendola tremare. La tiene cosi fino a che non la sente, infine, smettere di piangere.
Lei lo guarda, gli occhi così simili e cosi enormemente diversi da quelli della Regina
“Grazie…”
Lui sembra sorridere annuendo.
La mano destra le accarezza la guancia la guancia, l’altra poggiata sostenerle la nuca.
“Tranquilla andrà tutto bene.”
La mano scende leggermente dalla guancia, gentile. Le sorride.
Un’ultima volta.
Il movimento è brusco, bisogna metterci tutta la forza delle braccia e delle spalle per essere sicuri, si ode un suono sinistro.
La afferra mentre le gambe le cedono, per non farla cadere.
Per un attimo, prima che gli occhi di Yaranno si spegnessero gli è sembrato di vedere una espressione di stupore, ma era stato così rapido che di sicuro si era sbagliato.
La poggia sul pavimento immobile e si accascia lì accanto, la testa bassa, inerte, immobile anche lui.
Rimane in silenzio accanto a lei per parecchio tempo, mentre il sole che sorge illumina sempre di più la stanza.
Alla fine, è il Gatto a trovarlo così. Si ferma sulla porta, uno scudiero che sbircia alle sue spalle con gli occhi sbarrati, grandi come piattini.
Sentendoli entrare Barid alza lo sguardo, gli occhi che faticano a metterli a fuoco.
Cambia posizione sedendosi rozzamente per terra, i suoi movimenti sono lenti, attutiti, come se si muovesse con la difficoltà di un anziano e non dell’uomo giovane e atletico, il temibile guerriero, che è.
Il Gatto vedendolo così rompe gli indugi, lo raggiunge con quattro grandi falcate e lo afferra per un braccio, senza delicatezza, senza riguardi, e lo tira in piedi quasi a forza. Non lo lascia andare come se tema che possa cadere di nuovo.
 “Vostra Grazia… alzatevi.” Dice infine nella voce una inusitata traccia di premura. Solo allora Barid sembra riconoscere la sua presenza con un cenno del capo. “Andate, Vostra Grazia, adesso penso io al corpo.”
La testa di Barid scatta, la schiena torna improvvisamente dritta come d’abitudine, il Gatto deve lasciarlo e fare un passo indietro trafitto da uno sguardo di fuoco.
“No.” Si china, la rigidezza e torpore scomparsi, solleva il corpo della ragazza, e lo sistema sul letto in silenzio. Il Gatto che lo osserva in mezzo alla stanza, lo scudiero sulla porta.
La sistema con cura, la gonna, i capelli, le chiude gli occhi. Alza allo sguardo, sul muro, vicino al letto, sempre lei. Asa: La Giovane Vergine, a mezzo busto, il vestito con un largo scollo, i lunghi capelli rosso fuoco, gli occhi verde chiaro, il viso a forma di cuore, lo sfondo in foglia dorata.
“Non va toccata, va sepolta così, nella cripta. Con il padre e con i fratelli. Il corpo non va toccato. Fate chiamare i preti.” Si volta a guardarli e fa un gesto allo scudiero che corre via, felice di poter scappare.
Quando rimangono soli, è il Gatto a parlare, la solita aria scettica, la voce pacata di chi deve convincere un bambino testardo, ma con una sfumatura rassegnata già in partenza.
“La testa, vostra Grazia, non dovete portare la testa a corte… ?”
“No. Il corpo va sepolto intero. Basta così.”
I loro sguardi si incrociano ed è Barid il primo a distoglierlo e a sorridere, triste.
“Ho fatto abbastanza. Parlerò io alla Regina. Ci parlo io. Capirà”
Il Gatto scoppia a ridere e scuote la testa, senza timidezze. Dimostra per l’ennesima volta di essere una delle poche persone con sufficiente coraggio da ridere in faccia al Principe Demone.




Come autore non posso far a meno di sperare che il mio, moderno, piccolo rimaneggiamento di questo classico, vi sia stato gradito. Era probabilmente non necessario vista la quantità di versioni su carta e su pellicola che ne girano e tutte quelle che sicuramente vedranno la luce nel futuro, ma ne sentivo io il bisogno.
Personalmente la storia che ho appena raccontato mi ha affascinato fin da bambino, e ne sono rimasto ossessionato per anni, incantato dal suo crudo realismo. Ora scriverne una versione, farla mia, era un modo per soddisfare qualcosa di profondo e se io ho provato gioia nello scriverlo, spero, ripeto che a voi non abbia dato pena leggerla.
Per scriverla mi sono ispirato a vari fonti.
In primo luogo alle uniche due fonti primarie che abbiamo disponibili scritte entrambe da due testimoni diretti, due dei Compagni: il poemetto scritto da Garth di Frasian, in uno stile metrico ancora Centrale ma con uno spirito già Stilnovista, e il capitolo che descrive i fatti nell’imponente cronaca “Gesta e Imprese del Nobile Barid Mae Achsim, Condottiero, Principe del Sangue e Gran Giudice del Regno”. Libro che sempre che non siate costretti a leggere per ragioni accademiche o per una qualche penitenza, vi sconsiglio di affrontare, fidatevi.
Entrambe le fonti in questioni sono estremamente, ovviamente, parziali. Entrambi gli autori erano nel seguito del Gran Bastardo e le loro opere sono quando non agiografiche quanto meno apologetiche nei confronti del loro mecenate, ma sono di testimoni oculari e danno una visione irrinunciabile dello spirito del tempo.
Di altre fronti di ispirazioni ve ne sarete accorti da soli: la prima citazione è tratta da un romanzo famoso, e se avete studiato filosofia riconoscerete parti prese, per quanto sembri incongruo e anacronistico, da i “Discorsi Morali” l’opera in cui Matheni getta le basi della sua teoria della moralità umana e di come ci siano eventi inevitabili al di là del nostro controllo.
Ma la lista potrebbe essere molto più lunga. Al di là dei libri, se siete interessati vi consiglio di recarvi nei luoghi che hanno visto questa storia.
Il campo di battaglia di Manehald è visitabile. Vi è un tumulo, con un altare che marca una delle fosse comuni e anche un piccolo museo che contiene i reperti che sono man mano stati ritrovati: resti di armi, armature e finimenti e anche numerosi scheletri che illustrano in maniera crudamente realistica cosa potevano fare le armi del tempo.
Il Castello di Nevrel è una proprietà privata, ma è anche lui visitabile, a pagamento. Il tour guidato vi porterà in giro e potrete ammirare la Sala del Trono, assolutamente imperdibile, la cappella, che rispetto all’epoca della nostra storia è stata largamente rimaneggiata dopo un incendio, e la camera dei levrieri, chiamata così dal tema degli affreschi, che è la stanza in cui si dice Yaranno sia stata uccisa. L’aspetto è rimasto circa quello dell’epoca, anche se il mobilio non è originale, specialmente il romantico letto a baldacchino che è del secolo scorso.
Naturalmente il giro si chiude con la Cripta e con le tombe della famiglia Nevrelly. C’è anche, ovvio, quella di Yaranno, aggraziata da una sua scultura, successiva di almeno due secoli, che, probabilmente, non le rassomiglia molto.
È non perdetevi le infinite bancarelle dei souvenir, ovviamente.


Chi non conosce Asa Batimont di Accara? La Santa, la madre di Tarimannel il primo Autarca, la concubina di Marajael il conquistatore.

Se siete originari dell’Efalia è di sicuro una figura familiare fin dall’infanzia. Nella camera da letto di vostra nonna c’era di certo una sua icona. Poteva rappresentarla come una bellissima giovane vergine dai lunghi capelli color della fiamma, o come una monaca di mezz’età il capo rasato e la tunica di lana grezza, oppure poteva essere una rappresentazione più o meno cruenta del suo martirio, ma comunque era lì accanto al lettone in metallo.

Di lei avete sicuramente letto qualche romanzo che la vede protagonista, o visto qualche film o telefilm ispirato alla sua vita.

In qualunque caso, anche se aveste tentato di evitarla non ci sareste riusciti: durante gli anni scolastici vi avranno portato in gita a visitare il suo Mausoleo ad Antrah, e poi avrete passato lunghe giornate a studiare “Le quattro vite di Asa Batimont di Accara” del Mauriȥi, la pietra angolare su cui si è fondata della nostra letteratura moderna. 

Naturalmente da scolaro la avrete odiata. L’incubo di affrontare la prima vita della Giovane Vergine, la seconda come la Madre del Demone, la terza come la Monaca Penitente e infine la quarta come Santa alla Corte dei Santi ha lasciato il segno nelle vite di tutti gli studenti.

Da adolescente invece potreste essere tornati a riaprirla, cercando di nascosto qualche passaggio cupo e scabroso nella seconda vita, scoprendo come anche dei versi vecchi di secoli possono essere sorprendentemente sensuali.

Qualcuno di noi la ha poi riletta persino da adulto comprendendo finalmente perché ci abbiano costretto a studiarla tanti anni prima.

Asa Batimont di Accara ha avuto la ventura di vivere in un’epoca di transizione tra le più drammatiche della storia. Furono decenni terribili, città vennero saccheggiate e rase al suolo, intere nazioni scomparvero, centinaia di migliaia di persone morirono o soffrirono pene indicibili, ma da tutto questa distruzione è nato il mondo dove viviamo e la nostra nazione e Asa fu una delle protagoniste di quegli anni, una protagonista involontaria sicuramente, ma degna di essere ricordata e studiata.

La prima domanda che si pone chi si accinge a studiare una figura storica è sicuramente capire chi ha veramente di fronte, e questo è quanto mai vero per Asa.

Il Mauriȥi la accredita di quattro vite spirituali, e noi possiamo tranquillamente dire che anche dal punto vista storico e storiografico Asa ha avuto quattro vite.

La prima Asa che riconosciamo è quella della devozione popolare. Quest’Asa nacque quando era ancora in vita: la peccatrice diventata una monaca penitente, la guaritrice miracolosa. Il suo monastero divenne ben presto un luogo di pellegrinaggio e lo divennero immediatamente anche la sua tomba e il luogo del suo martirio.

La sua era la storia perfetta per incantare la fantasia popolare: la bellissima fanciulla del sangue più nobile che aveva toccato, anche se suo malgrado, il più profondo abisso di depravazione (essere presa come concubina da un demone e generarne addirittura uno), e che dopo aver passato una intera vita di penitenze e preghiere raggiungeva le vette della santità, il tutto coronato dal martirio. La forza di questa narrazione è dimostrata dal fatto, che malgrado il passaggio di secoli ed epoche, la devozione verso di lei sia ancora fortissima e diffusissima: Asa è la protettrice delle partorienti e, un po’ ironicamente, della verginità, è la Santa di eccellenza a cui chiedere aiuto nelle difficoltà.

La sua “Seconda Vita” storica si sviluppa a partire dalla prima, ma con la differenza che non si tratta di una creazione spontanea venuta dal basso, ma di qualcosa di pianificato dall’alto e politicamente motivato.

Quando il figlio di Asa, Tarimannel il Primo, riconquistò il potere, tornando dall’esilio e uccidendo l’ultimo dei suoi fratellastri, incoronandosi come primo Autarca di Efalia, fu subito cosciente della necessità di dare un fondamento di legittimata al suo potere, non voleva essere (come erano stati suo padre e i suoi fratellastri) un conquistatore alieno, ma il monarca se non riconosciuto, almeno accettabile, da tutti, indigeni e invasori.

La spontanea devozione popolare verso la figura di sua madre era una ottima base di partenza. Il suo corpo venne esumato, il famoso mausoleo di Atrah costruito, sul luogo del suo martirio fu innalzato un monumento commemorativo (che poi nel corso dei secoli si è allargato fino a diventare l’attuale Santuario della Dama), commissionò opere d’arte e poemi per celebrarla (donandoci capolavori come le “Quattro Vite”).

Fu un grandioso spettacolo di pietà filiale. Totalmente falso ovviamente, probabilmente Asa aveva incontrato la sua progenie demoniaca ben poche volte e di sicuro non c’era amore tra i due, ma il messaggio politico era chiaro: Io sono un Signore dei Demoni, io regno su di voi, indegni umani e non, perché io sono un essere superiore, ma sono stato generato da una donna umana, una santa, e tramite lei posso capirvi. Posso avere pietà. Posso avere giustizia. Posso perdonare. Nel suo nome, grazie a lei, potete vivere in pace.

Questa è l’Asa Madre del Demone, una rappresentazione di nobilità, potere e pietà.

La terza Asa che conosciamo è la Santa della chiesa e della filosofia. Una figura talmente complicata che in queste righe si può solo accennare. Quello che possiamo dire che fu un’impresa di uno straordinario equilibrismo intellettuale mettere insieme i desiderata del potere temporale, la teologia tradizionale e la devozione popolare. Una contraddizione vivente tra quello che avrebbe dovuto essere la più profonda impurità rituale e i miracolosi segnali di santità, una contraddizione politica tra l’istinto di esaltare questa traiettoria di purificazione spirituale e l’ovvio problema di non poter stigmatizzare la fonte della sua caduta.

Una contraddizione che è stata il seme da cui si è sviluppato il pensiero etico moderno.

La quarta e ultima Asa, è quella più recente, quello che ha oggigiorno più successo di media e di pubblico ed è sicuramente la più lontana dalla realtà storica. Asa è una eroina, romantica, volitiva e avventurosa e non troppo religiosa. Questa è la protagonista di famosi romanzi che hanno fatto la storia e i gusti dell’ultimo secolo, ed è tuttora l’ispirazione su cui si basano i media moderni, quella che trovate al cinema o in televisione.

Queste sono le Asa che della storia e degli storici, chi fosse lei veramente è invece è molto più difficile da capire.

Su Asa molto ha stato scritto, ma dobbiamo essere chiari non abbiamo nessun documento di sua mano (non odiatemi, per favore, la Preghiera del Bosco è attribuita a lei, ma tutti gli studiosi concordano sia apocrifa), ma abbiamo alcune preziose fonti primarie a lei contemporanee che parlano di lei e che danno informazioni preziose.

Sulla Prima Vita, sulla Giovane Vergine, non sappiamo quasi nulla in realtà, i versi del Mauriȥi sono la versione condivisa, ma sono frutto di invenzione e licenza poetica, gli avvenimenti della sua giovinezza sono ormai persi nelle nebbie del passato. Sappiamo solo che era la figlia più giovane di una famiglia aristocratica, che aveva numerosi fratelli e sorelle, che veniva dalle provincie dalla costa. Una vita come tante altre, non degna di essere ricordate nei libri.

Tutto cambia per lei con la Grande Ambasceria, la situazione del regno è talmente disperata che come estremo tentativo si compie l’errore fatale di chiedere aiuto a Marajael e alle sue tribù, sperando di combattere i barbari con altri barbari. Si inviano doni di tutti i tipi e sei ancelle di nobili origini.

Quali fosse lo scopo delle ancelle è tragicamente chiaro, vista la ritrosia delle cronache reali di parlarne, escluso il rivelatorio dettaglio della loro dedica agli Dei, il che le rendeva sostanzialmente delle vittime sacrificali.

Delle sei fanciulle abbiamo solo il nome di Asa, le altre scompaiono nel nulla. Forse, fortunatamente per loro, ritornano alle loro case e alle loro vite, forse non sopravvissero all’incontro con Marajael. Qualunque sia la ragione, Asa è l’unica che rimane a corte e sembra prosperare nel favore di quello che diverrà a breve il nuovo signore indiscusso di Efalia.

Ci sono vari resoconti di ambasciatori alla corte di Marajael il Conquistatore che parlano di lei. Viene descritta durante le udienze seduta ai piedi del piedistallo del trono regalmente abbigliata, e gli ambasciatori non possono fare a meno di notare come venga a volte consultata dallo stesso Conquistatore durante lo svolgimento dell’udienza.

Altra documentazione di fondamentale importanza sono gli archivi delle petizioni. Molte, specie quelle della gente comune, sono indirizzate non direttamente al Signore dei Demoni, ma a lei e chiedono la sua intercessione. È un dato interessantissimo, sia perché sembra confermare che fosse in una posizione in grado di influenzare e scelte e chiedere favori (seppur di piccola entità), sia perché permette di capire come fosse considerata una protettrice del popolo ben prima che le venisse concesso di lasciare la corte e ritirarsi in monastero.

Un ultimo eccezionale documento che ci apre l’unico malinconico squarcio nella sua vita privata sono alcuni paragrafi di una lettera che una delle sue sorelle maggiori scrisse a una parente, dopo aver visitato la corte al seguito del marito e averla incontrata.

“Infine mi chiedi notizie di Asic’hia [NdA: un diminutivo familiare del suo nome] e posso dirti di averla finalmente incontrata di persona e di averci potuto parlare. Mi ha fatto la più grande delle impressioni.

Il suo abbigliamento è quello di una Regina, così come i gioielli che porta, gli appartamenti in cui vive e la servitù di cui dispone. Tutti a corte la rispettano e molti le vogliono bene. Come se fosse una Regina le ho dovuto chiedere udienza, ma quando l’ho incontrata era la nostra Asic’hia di sempre, dopo solo un attimo di esitazione ci siamo abbracciate con affetto e ci siamo sedute insieme.

La nostra sorellina è bella come sempre stata, la più bella di tutte noi, e se possibile in questi ultimi anni lo è diventata ancora di più, ma sul volto c’è un’ombra. È triste, e afflitta, tutti gli onori, dice sono vuoti e non servono a nulla. Mi ha chiesto di pregare e sacrificare per lei, e di chiedere la stessa cosa a chi, fuori dalla corte le vuole ancora bene. La sua vita in questo posto e a queste condizioni è tutt’altro che felice, e non sarebbe sopportabile senza la fede negli Dei e la speranza di poter fare qualcosa di buono per aiutare il nostro popolo.

Di più non mi sento di scriverti, ma ti rinnovo l’invito che ci ha fatto di fare offerte agli Dei a suo nome.”

Se vogliamo seguire i versi del Mauriȥi, rimasta incinta con grande meraviglia di tutta la corte e dello stesso Marajael convince il Demone che l’unica maniera per essere poter condurre a termine con successo la gravidanza è affidarsi agli Dei e offrire sé stessa in sacrificio, dedicandosi a loro come monaca e in questo modo ottiene la libertà e sfugge alla sua triste sorte.

Ovviamente questa è licenza poetica, ma di certo i fatti sono simili: rimane incinta, sopravvive al parto (cosa decisamente eccezionale visto il tipo di gravidanza) e solo pochi mesi dopo entra nel monastero di Rahibadi. Con tutti gli onori.

Sulla sua vita in un monastero di clausura ovviamente non abbiamo quasi nessuna fonte, a parte racconti e cronache dei primi pellegrini che si iniziano a recare da lei, man mano che si diffonde la voce che sia in grado di assicurare miracolosamente fertilità e una gravidanza sicura.

Il tutto ha fine nel 573. Marajael viene spodestato dal suo figlio maggiore, e costretto a fuggire per scomparire nella vastità delle steppe occidentali e non dare più nessuna notizia di sé.

Nel brutale tutti contro tutti della guerra civile che ne consegue, anche il figlio di Asa, Tarimannel, il più giovane della progenie di Marajael è costretto a scappare ad occidente (in attesa di ritornare trionfante alcuni anni dopo) e uno dei suoi rivali, versioni differenti indicano differenti mandanti, decide di eliminare anche Dama Asa, ancora così benvoluta nel cuore del popolo, temendo sia in combutta col figlio.

Asa viene prelevata dal monastero di Rahibadi da un gruppo di cavalieri con la scusa di doverla portare urgentemente a corte, ma in verità dopo poche ore di cavalcata, nel folto della grande foresta di Verden, la fanno scendere dalla portantina e la decapitano. Solo un attimo di esitazione dei cavalieri e una miracolosa tempesta di vento che spaventa i cavalli da occasione alle consorelle che l’accompagnavano di salvarsi fuggendo tra gli alberi e riportare la notizia del martirio al monastero.

Così finisce la permanenza terrena di Asa e inizia la sua quarta vita, su cui ovviamente, allo storico di questo mondo non è dato di indagare.


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