L’inevitabile succedersi
degli eventi.
Come finisce la storia di
Barid e Yaranno, la storia che sto per raccontarvi, è risaputo:
“Al suo ritorno a corte,
la Regina non accolse il Primo Giudice, suo fratello, con i sorrisi e gli
abbracci riservati a un condottiero vittorioso, ma con freddezza e silenzio e
per giorni non gli concesse di vedere il suo volto.”
Così finisce nella sua
versione più famosa, certo le parole sono diverse a seconda di chi la racconta,
la canta o la recita, ma la fine è sempre questa, il problema è come farla
cominciare, questa storia, questo è più complicato.
Potremmo iniziare a
narrarla partendo tre mesi prima, quando il Granduca di Nevrel decise di
rompere gli indugi e, alla morte dell’ultimo figlio dell’Autocrate suo cugino
(una morte non naturale e alquanto violenta), proclamò i suoi legittimi diritti
sul trono e chiamò a raccolta i suoi vassalli e i suoi alleati per deporre Ranja,
l’infame usurpatrice: “Quella puttanella, figlia di una gran puttana” come l’aveva
definita, in maniera molto poco aristocratica.
Oppure potremmo tornare
indietro di 4 o 5 anni, spiegando come e perché il vecchio Autocrate, iniziò a
favorire in modo ignobile e illogico la sua figlia più piccola, Ranja’no,
mettendo in subbuglio la linea di successione e gettando il paese nella guerra
civile.
Volendo potremmo addirittura
scorrere lo svolgersi dei secoli e cantare di come le genti dell’ovest
arrivarono nel Malvearna, con i loro cavalli, i loro archi e i loro Demoni,
saccheggiando città e distruggendo nazioni e fondandone di nuove.
Per finire potrebbe avere
anche senso persino risalire nel tempo di milioni di anni e raccontare di come
la deriva dei continenti creò la grande massa del Mondo Centrale, con le sue
fertili propaggini, bagnate dal mare, fertilizzate dai fiumi e dalle piogge e
le grandi steppe e i deserti del suo interno, un mare d’erba e sassi quasi
infinito. Un luogo sperduto che forgia popoli nomadi, fieri e feroci, che
prosperano nei periodi fertili e che al sopraggiungere della siccità e della
carestia cercano immancabilmente nuovi spazi verso il mare, verso ovest e verso
sud. Un ciclo climatico millenario, una pompa di genti, popoli e razze che è il
vero motore della storia del nostro mondo.
Ma non siamo qui a
scrivere libri e volumi, per i nostri scopi è sufficiente tornare indietro di
appena tre giorni, spostandoci di poche miglia fino alla piana di Manehald.
Facciamo quindi cominciare
tutto all’alba di una luminosa giornata di inizio inverno, fa freddo, ma non
troppo, e, molto più importante, il terreno è asciutto e sodo, aperto, ottimo
per i cavalli.
A nord ha preso posizione
il Granduca di Nevrel con gli uomini che ha potuto radunare con chi così poco
preavviso: non si aspettava certo di dar battaglia così presto, contava di
passare l’inverno a radunar uomini e rinsaldar alleanze e lanciare una campagna
estiva, ma quando un esercito dell’usurpatrice è entrato nelle sue terre ha
accolto la notizia con la soddisfazione di un uomo di azione.
Ha ai suoi ordini circa
ottomila uomini, metà fanteria, per lo più fanti leggeri, appoggiati da
balestrieri e qualche archibugiere, il resto cavalleria, in quello stile che
domina i campi di battaglia da secoli. Armatura pesante e cavalli massicci, ma
veloci, arco composito per attaccare a distanza e lancia e mazza per caricare e
travolgere le linee di fanteria scompaginate dalle frecce ed eventualmente scontrarsi
a testa bassa con altra cavalleria di pari livello.
La sua strategia è
semplice (con le leve feudali e tribali non si può certo puntare sul
complicato), ma solida ed efficace, la fanteria concentrata sul suo lato destro
funzionerà da cardine della manovra, il perno su cui la cavalleria alla
sinistra ruoterà per colpire sul lato gli avversari e avvolgerne lo
schieramento. È sicuro del fatto suo, la superiorità numerica e qualitativa è
della sua.
Di fronte a lui ci sono poco
più di cinquemila avversari, per lo più fanteria, la cavalleria sembra poca,
dei distaccamenti leggeri sui lati, forse cinquecento/seicento cavalieri
pesanti.
In inferiorità numerica, i
realisti non hanno nemmeno provato a estendere la propria linea per pareggiare
quella del Granduca, si sono schierati in maniera compatta: cinque grandi
quadrati di fanteria separati da vasti spazi aperti, alla “Nuova Moda”, come si
dice. Hanno letto bene lo schieramento avversario e sono sbilanciati proprio
sul lato in cui il Granduca vuole far avanzare la cavalleria, uno dei quadrati
spostato in posizione più arretrata a coprire il fianco destro.
Accanto all’usurpato
stendardo reale, sul quadrato nell’angolo destro dello schieramento (quello
dove arriverà con più forza l’urto avversario) sventola un altro vessillo:
bianco, contornato da foglie di edera dorate, al centro una sola goccia di
colore nero.
Basta questo per riempire
il Gran Duca di sdegno: è il blasone del “Gran Bastardo”, il “Principe Demone”,
la “Lacrima Nera” l’infame fratellastro dell’usurpatrice, il suo braccio
armato. Un mezzo plebeo indegno dei suoi titoli e degli onori che gli vengono
resi, degno compare della tiranna che infanga il trono.
I toni del suo discorso
alle truppe sono degni dello scontro definitivo tra il bene il male, le
acclamazioni e le grida di battaglia si alzano al cielo.
Ma se il prologo sembrava
epico la battaglia invece è in sé stessa decisamente deludente: non dura non
più di qualche ora, per pranzo è tutto finito. I quadrati dell’esercito reale
irti di alabarde e archibugi respingono la carica della cavalleria granducale
senza scomporsi, gli spazi aperti tra di quadrati si sono trasformati in
trappole sottoposte a un mortale fuoco incrociato.
Il successivo
contrattacco è quasi una formalità, colto nel tentativo di riorganizzarsi
l’esercito del Granduca ondeggia e si sfalda definitivamente appena si sparge
la voce che lo stesso Granduca sia caduto nella mischia. Non ci si disturba
nemmeno a inseguire i fanti e cavalieri che sciamano via, abbandonando, lance e
scudi, ognuno per sé stesso, in cerca di salvezza.
Prima del calar sole le
truppe reali arrivano senza altra opposizione sotto le mura del castello di
Nevrel. Il castello una volta era stato pensato di certo come una fortezza, la
posizione, stupenda, lo testimonia, ma sono almeno un paio di secoli che non ha
una funzione militare, è più un palazzo, i bastioni sono bassi, trasformati in
giardini e terrazze, circondati dalle case e dalle piazze di un ricco borgo.
Il comandante della
guarnigione e i due Prefetti della cittadina che si estende ai suoi piedi vanno
incontro ai Realisti, scortati da preti e sacerdoti, a chiedere condizioni,
coscienti che ogni resistenza sarebbe futile.
Le condizioni di resa, cinque
talenti in oro e argento e l’apertura delle porte in cambio dell’assicurazione
che non ci sarebbero stati saccheggi e violenze, sono quasi troppo belle per
essere vere, ma i Realisti hanno fretta di chiudere la campagna e pacificare la
zona, e sono disposti ad essere generosi.
Le porte si aprono, gli
stendardi granducali vengono ammainati, e le truppe reali entrano da padrone, sfilando
per le strade, non ci sono festeggiamenti o acclamazioni, ma non ci sono nemmeno
violenze o spargimento di sangue, i cittadini osservano tutto al sicuro dietro
le serrande serrate. In cima alla colonna delle truppe reali le teste del
Granduca e dei suoi due figli aprono la marcia, infilate su delle picche.
In città qualcuno,
sottovoce, al nome del Granduca già aggiunge già l’aggettivo “ribelle”. Il
vento sta cambiando veloce.
Tutto sembra concludersi,
in definitiva, con un numero pietosamente basso di vittime.
La sala del trono del
Castello di Nevrel è ritenuta unanimemente una delle più imponenti della
regione: enorme e splendente di marmi, ori e arazzi e opere d’arte accumulate
nei secoli, può contenere svariate centinaia di persone e adesso, quasi vuota,
rimbomba e riecheggia di risate.
Sul trono ducale, circondato
da sei dei compagni più fidati, è seduto il vincitore della battaglia. È lui il
braccio armato, lo stratega che vince le battaglie, per la sua sorellastra, per
l’Usurpatrice, che ben presto diverrà anche qui la legittima beneamata Sovrana,
Regina e Autocrate.
Il suo nome, è Barid Mae
Aksim, ma in tutto il Malvearna è conosciuto con svariati soprannomi, il più
noto è quello di “Gran Bastardo” (a memoria della sua origine illegittima).
Pochi lo chiamano apertamente così, ovviamente, ma a lui come soprannome non
dispiace, quasi lo inorgoglisce. È il nome con cui passerà alla storia.
È giovane e dall’aspetto
vigoroso: i capelli neri che gli arrivano alle spalle, naso aquilino, e quei
curiosi occhi di un castano chiarissimo, quasi giallo, che spiccano sulla carnagione
scura sono tutte prove delle sue nobili ascendenze reali, almeno da parte di
padre.
Su di lui non c’è da
dilungarsi, impossibile non aver letto di lui, o non aver dovuto studiare a
scuola. Lo stesso per i suoi compagni, tutti nel bene o nel male passati sui
libri di storia, se non per i meriti personali, almeno per essere stati al suo
fianco. Un poeta, uno storico e filosofo, un grande politico, un esploratore,
almeno due famosi condottieri. C’è il futuro del paese in quella sala.
E c’è allegria: hanno
appena finito di esaminare i numeri dei morti e dei feriti della battaglia, e
sono fortunatamente piuttosto pochi. Si è già scorsa pure la lista degli uomini
meritevoli di promozioni, premi e citazioni per il valore mostrato, o le
iniziative prese.
Infine, uno dei Compagni
afferra da un tavolo un enorme libro contabile:
“Ed ecco qua il contenuto
del tesoro granducale.” Mostra un numero. C’è qualche fischio di ammirazione.
“Non un grande stratega il
Granduca, ma un gran risparmiatore.” Fa qualcuno.
“Su, su lo schieramento
non era male, cinquant’anni fa ci avrebbe anche potuto vincere qualcosa.”
Risponde un altro.
Sua Grazia, il Gran
Bastardo, Barid, esamina il libro mastro, li ignora, sorridendo leggermente
alle battute che sente. Gli basta alzare gli occhi per farli smettere.
“Una bella cifra
davvero.” Commenta. “Il cinquanta per cento va al tesoro reale. Il resto
spartiamolo tra le truppe secondo le solite proporzioni e i soliti usi.”
Uno dei compagni riprende
il libro mastro, con un piccolo inchino. “Agli ordini.”
Non fa in tempo ad
allontanarsi che Barid lo ferma e lo fa riavvicinare con un gesto della mano.
Si sporge in avanti attirando, se ce ne fosse stato bisogno, l’attenzione di
tutti.
“Sentitemi, e fate attenzione
a quello che vi chiedo.” Li fissa uno a uno. “Il mio non è un rimprovero, ma
voglio essere chiaro: non voglio sentir parlare di oro che vi rimane
appiccicato alle dita. Mi capite, vero? Non voglio sentir altre voci. C’è ne
sono troppe e spiacevoli.”
Cala un attimo di
silenzio, imbarazzato. È perfettamente vero, e c’è poco di strano, nessuno di
loro è ricco e la fortuna va colta quando c’è l’occasione. Alla fine, uno dei
sei, non importa chi, parla per tutti, risponde.
“Lo sapete che quello che
è nostro è vostro. Mio Signore.”
Il Gran Bastardo,
sorride, allunga una mano afferrando chi ha parlato per la spalla.
“Lo so amico io, lo so
bene.” Lo guarda. “Ma questo però è anche peggio, perché fa sembrare che le
mani siano le vostre, ma la borsa sia la mia. Mi capite?” Le teste annuiscono.
“Basta. Penserò io a voi. Come al solito. O vi faccio mancare qualcosa?”
A rispondere è quello con
in mano il libro mastro. Con un sorriso ribaldo.
“E così sia… vorrà dire, amici,
che torneremo a corte, da questa campagna, molto più poveri di quando siamo
partiti.” Il tono di dolore è talmente esagerato che scoppia qualche risata
trattenuta.
“Su su un piatto di zuppa
a corte lo troveremo sempre.” Si prende in giro qualcuno. “E i più belli di noi
pure qualche servetta generosa.”
“Il problema è di chi è
brutto come me, e gli tocca sborsare.” Fa un altro, oggettivamente il meno
attraente col naso storto, gli occhi piccoli e la faccia butterata.
“Ne terrò conto,
tranquillo, e avrai di più” fa il principe appoggiandosi allo schienale
ridendo. Potrebbero seguire altre battute, come vi dicevo, l’atmosfera è più
che allegra.
Il silenzio torna,
all’entrata di uno degli ufficiali, che raggiunge il gruppo e parla concitatamente
all’orecchio di Sua Grazia. Il Principe rimane un attimo pensieroso prima di
dare un cenno di assenso.
Poi si rivolge agli
altri: “Amici miei, ora seri e formali, vi prego. Abbiamo visite.” Si gode un
attimo le facce perplesse e poi spiega. “A quanto pare Yaranno, la figlia del
nostro amico Granduca, che si è fatto così gentilmente massacrare stamattina,
per darci gloria e fama, mi chiede udienza.”
I commenti si sprecano,
malgrado la richiesta di serietà:
“Coraggiosa la dama a
sfidare il leone nella sua tana.”
“O forse solo stupida,
fossi in lei, io cavalcherei a briglia sciolta per scappare il più lontano possibile.”
“Beh magari è pure
graziosa e a qualcuno dirà fortuna stanotte.”
Vengono tutti zittiti da
un gesto brusco. Mentre le porte della sala vengono aperte. Il principe stesso
si raddrizza, sistemando meglio il semplice corsetto imbottito che indossava
sotto l’armatura. Afferra la faretra e il suo arco composito, che aveva
appoggiato accanto al trono, e se li sistema in grembo. Il segno universalmente
riconosciuto del potere temporale ed è lui ora a comandare qui.
Dal fondo della sala
scortata da due suoi ufficiali entra una piccola processione.
Alla testa è una dama
slanciata che avanza imperiosa, vestita di un lungo abito di seta con decori
floreali in trama dorata, il capo coperto da un velo tenuto fermo da un
diadema. Le braccia nude.
Alle sue spalle due
ancelle vestite più semplicemente e un paggio con lo scudo di famiglia del
granduca ricamato sul corsetto di velluto nero.
Una delle due ancelle
tiene in braccio un cane. Minuscolo, bianco e nero dal pelo lungo e setoso.
Barid, schiena dritta, il
visto immobile e congelato, come si conviene nelle udienze formali, li osserva
e, mentre si avvicinano lentamente navigando il pavimento di marmi intarsiati,
si accorge di quanto si stesse sbagliando con la prima impressione.
La dama, evidentemente la
figlia del Granduca, è tutt’altro che una dama, malgrado l’abito da corte che
indossa, malgrado il diadema in cui spicca un rubino grosso come il pollice di
un uomo: è una ragazzina, appena adolescente, forse, magra e sottile come un
giunco. Ha un viso ovale, e grandi occhi blu scuro dall’aria severa. È graziosa
e potrebbe persino diventare una donna attraente malgrado la pelle pallida e i lunghi
capelli di un biondo chiaro molto plebeo.
Le due ancelle alle sue
spalle sono invece due giovani donne dai capelli corvini, una in particolare
dalla carnagione più scura e dagli occhi neri e brillanti attira piacevolmente
gli sguardi.
Il paggio è anche lui
solo un ragazzo, dall’aria serissima e preoccupata, si guarda in giro, come a
tentare di soppesare chi ha di fronte con la limitata esperienza della sua età.
Alla cintura ha un kajar, un coltello a doppio filo dalla lama larga e robusta
tipico della zona.
La ragazza arriva ai
piedi del trono. Gli occhi sono decisi, la bocca, piccola e graziosa, è serrata
in una linea sottile. Non bada ai compagni che fanno ala intorno al trono. I
suoi occhi sono fissi su Barid, il volto immobile, ieratico: conosce bene anche
lei come comportarsi formalmente.
Gli sguardi del principe
mezzosangue e della figlia del Granduca si incrociano quasi a sfidarsi, quasi a
contestare il suo diritto a sedersi su quel trono, ma c’è poco da fare, è lui
ad avere cinquemila armati dentro le mura, è lui ad essere circondato da uomini
fidati.
È lei a fare la
riverenza, elegantemente, con la schiena dritta, senza piegare il capo. Ancelle
e paggio la imitano, piegando, loro sì, la testa.
“Cugino Barid, sono lieta
di vederti.” La voce è giovane e sottile.
Che fare di ciò? Come
mossa di apertura non è male: reclamare la loro parentela e la protezione e il
rispetto dovuto al sangue reale che scorre anche nelle sue vene. Barid,
nell’osservarla, sente uno strano disagio, una sensazione quasi di dejà vu.
“Ti do il benvenuto
Cugina Yaranno, ti ringrazio di essere venuta a salutarmi.”
“Come potevo non venire a
salutarti, quando sei venuto tu a trovarci. Non è solo un piacere, ma un dovere
per me come Signora di questo castello e figlia di mio padre, il Granduca di
queste terre.”
La sensazione di dejà vu si
risolve in un attimo: gli ricorda la Regina. Fisicamente non potrebbero essere
più diverse, ma l’estraniante sensazione di incongruità tra il formalismo delle
situazioni e dei modi, la rigidità dei portamenti, dei vestiti e il viso
giovane e aperto è esattamente la stessa.
La Regina sa come
incantare gli astanti, a malapena ventenne, il viso velato, coperta dai
broccati dei sacri paramenti reali. Lo scricciolo di fronte a lui fa lo stesso,
e basta uno sguardo ai suoi amici per capire che funziona: non ci sono
atteggiamenti strafottenti o sorrisetti ironici come al loro solito: sono seri,
silenziosi e incantati.
Nemmeno lui rimane
indifferente, ma sa come rompere l’incantesimo. Lo aiuta la sicurezza, quasi
arroganza della ragazzina, che lo disturba e lo irrita.
“Ringrazio la tua
personale gentilezza, Cugina.” La voce si indurisce nello sferrare il colpo. “Ma
devo purtroppo ricordarti che non sei più Signora di questi luoghi che ora, per
diritto di conquista, spettano alla nostra Sovrana, e non a te. Allo stesso
modo tuo padre ha rinunciato ai suoi titoli e ai titoli della vostra famiglia
nel momento stesso in cui ha compiuto il sacrilegio di ribellarsi.”
I toni sono taglienti, dimostrano
la sua irritazione di fronte a quella specie di imitazione, forse troppo.
La ragazza di fronte a
lui accusa il colpo, ma non si scompone. Non cambia espressione.
“Se così è, spero di
poter almeno essere Tua ospite, Cugino.”
Stupida, stupida
arrogante. Si sporge in avanti.
“Ti sbagli anche su
questo Cugina. Non puoi essere nostra ospite, in quanto figlia di un traditore,
morto nel tentativo di ribellarsi, sei piuttosto sotto la nostra custodia in
attesa del giudizio reale.”
L’incantesimo si rompe.
La schiena e le spalle si piegano e si rattrappiscono, la testa si china. Gli
occhi si abbassano sul pavimento. Adesso non ricorda più la Regina, ma una ragazzina
che per giocare si è messa gli abiti troppo grandi della madre ed è stata
rimproverata.
Il cagnetto, in braccio
all’ancella, capendo i toni se non le parole, lo guarda fisso, le labbra
arricciate in un ringhio. Il paggio capisce anche le parole e lo fissa anche
lui, nei suoi occhi c’è rabbia, la mano è scesa alla cintura vicina
all’impugnatura del coltello. Chissà chi dei due è più pericoloso: il cagnolino
o il ragazzino. Basta lanciare uno sguardo, comunque, per piegare entrambi.
“Ora ritirati nelle tue
stanze.” È un ordine. “Ti convocherò io.”
Gli occhi blu non sono
più duri, le labbra non sono serrate, c’è smarrimento nello sguardo. Si
guardano, non dice nulla. Sente il disagio che corre nella sala, è una magia
diversa, ma pur sempre una magia pericolosa. Quella della fanciulla in
difficoltà, ci sarebbe quasi da aspettarsi che uno dei suoi compagni provi a
difenderla.
Meglio chiudere questo
incontro. Barid le concede solo una voce marginalmente più gentilmente.
“Vai ora, Cugina, verro
io da te.”
La riverenza è comunque
perfetta, si gira e lascia la sala nel silenzio.
Alla chiusura delle porte
si sente come un sospiro. Prima che qualcuno apra bocca, prima che qualcuno dei
suoi amici possa esprimere un dubbio, è lui a parlare.
“Sorvegliatela. Visto che
non è scappata, evitiamo che lo faccia ora.” Sceglie uno dei suoi compagni con
uno sguardo. “Metti di guardia qualcuno che non si lasci incantare dagli
occhioni di una duchessina… o da qualcosa di più sostanziale, le ancelle mi
sembrano sveglie e pratiche.” Una pausa. “Tenete d’occhio il ragazzino è così
giovane da essere di sicuro pronto a qualsiasi cretinata.” Un cenno di assenso.
Riprende “Poi.. dove eravamo rimasti?... sì.” Fissa il compagno che ancora
tiene sottobraccio il libro mastro. “Fai subito distribuire i premi e le paghe,
almeno un anticipo. Che i soldati abbiano i soldi per pagarsi pasti, vino e
donne, senza creare problemi. Fai pubblicare il solito editto che tutto deve
essere pagato e che le punizioni sia note.”
“Come uso?”
“Sì, l’uso: frustate per
i furti, decapitazione per l’assassinio, impiccagione se stuprano la moglie o
la figlia di un borghigiano. E, ultima cosa, poi la finiamo qui: altro editto.
A nome della Regina. Che sia distribuito in città e in provincia: da.. diciamo
dopodomani, per 7 giorni terrò udienza in questa sala e chiunque sia colpevole
di tradimento potrà venire qui a rendere omaggio alle insegne reali e tornare
nella pace dell’Autocrate, il perdono completo. Solite formule, solite
clausole. Provvedete sia presente qualche sacerdote per benedire il tutto.”
Si stiracchia e
riappoggia faretra e arco a terra.
“E ora? Doverosa
ispezione di cucine, dispense e soprattutto cantina?”
Nessuno sembra contrario.
È la ragazza
districandosi da lui a svegliarlo. Ancora prima di aprire gli occhi, la
riafferra per un fianco abbondante e se la ritrascina addosso senza resistenza,
viene ricompensato con la vista ravvicinata di un seno generoso, ci schiocca un
bacio e solo poi chiede, la voce ancora impastata dal sonno.
“E dove vai? Gioia mia.”
La ragazza lo guarda
dall’alto in basso a cavalcioni sulle sue gambe. Una massa enorme di riccioli scuri
e un sorriso allettante.
“C’è qualcuno alla porta,
Signore.”
Solo adesso si accorge
del bussare.
Voce roca, ha bevuto
decisamente troppo: “Avanti.”
La porta si apre, la
ragazza questa volta si libera, a forza, con un urletto indignato e si copre
avvolgendosi nella coperta, lasciando lui nudo.
Per fortuna è uno dei suo
i compagni e non si scompone. Sorride ironico inarcando un sopracciglio. Visto
che non è solo si mantiene circa sul formale.
“I miei omaggi a Vostra
Grazia. Mi scuso di dovervi disturbare.”
“Già, a quest’ora.” In
effetti non ha idea di che ore siano, ma gli sembra fin troppo presto. “Che
succede, un esercito nemico è su di noi? È apparso qualche demone che pretende
obbedienza e sacrifici?...”
L’altro lo interrompe.
“La Vostra ospite ha fatto
i capricci…”
“Capricci?”
“Ha chiesto di lasciare i
suoi appartamenti per recarsi alla cappella del castello per una orazione
mattutina, Vostra Grazia.”
“Per tutti i Santi, dov’è
il problema?”
“L’ordine non sembrava
questo. E il Decurione non sapendo che fare a chiesto a me.”
Che idiozia.
“Gli ho detto di
lasciarla andare. È pur sempre del Sangue. Ho sbagliato, Vostra Grazia?”
“No, hai fatto bene, può
girare per il castello, ci mancherebbe. Mica voglio la rinchiudiate nelle
secrete. Ho detto solo di non farvela scappare.”
“Ho mandato il Gatto con
lei.” Uno dei Decurioni più fidati. Un pendaglio da forca, ma un veterano capace
e devoto. Di certo non il tipo da lasciarsi commuovere da una ragazzina, o distrarre
dalla tetta di una ancella.
“Bene, così. La
raggiungerò nella cappella più tardi. Dopo colazione, tanto tra quartine e
cinquine del mattutino il tempo dovrei averlo.”
La porta di richiude. Lui
rimane seduto sul letto un attimo per recuperare lucidità e si rigira verso la
ragazza.
“Che dolore, mi sa che
non avrò altro tempo per te stamattina. Mia bella Aksino.”
Lei distesa, il lenzuolo
tirato fino alla gola, una coscia soda che spunta sul lato, lo guarda, con una
risata ricca e profonda.
“Hax’ino” gli fa con la
pronuncia corretta del suo nome.
Lui sorride, è dalla sera
che si prendono in giro a vicenda.
“HA.. HAk… ahhh niente.
Non riuscirò mai a pronunciarlo sai? Mi sa che dovrò trovarti un soprannome.”
Lei ride di nuovo. Si
vede il bel seno ballare sotto il lenzuolo.
“È bella la vostra
pronuncia. Mio Signore.” Chissà perché non aveva dubbi che le andava bene
comunque. “Sembra il nome di un gran signora con l’accento che gli date.” Beh
forse da gran signora no, per niente anzi. Ma perché deluderla?
Si alza, dalla borsa le
prende due Pezze d’argento e gliele stringe nella mano.
“Ora vai via. Magari
stasera faremo il bis.” Perché no. la ragazza e piacevole, e ci sono un paio di
aspetti da esplorare in maniera più completa.
Lei sguscia via dal
letto, sgambettando, gran bella vista. Lo bacia con tutto l’ardore che può dare
la ricca, inaspettata, somma di due Pezze, e gli sorride mentre raccoglie le
sue cose.
La Cappella Palatina è
imponente quanto la Sala del Trono. A pianta ottagonale è grande quasi come il
Tempio Maggiore di una città di buone dimensioni. Ha preso il posto di uno dei
torrioni laterali durante qualche rimaneggiamento dei secoli precedenti.
La cupola altissima è
degna di ammirazione, i finestroni illuminano l’interno, facendo scintillare le
cornici dorate delle raffigurazioni dei 64 Spiriti Maggiori che sembrano sorvegliare
chiunque entri.
All’entrata trova il Gatto,
pantaloni a sbuffo, corsetto di pelle, la solita affidabile faccia spiacevole
marcata da una cicatrice sulla guancia (battaglia di Gunna, un colpo di
sciabola, se lo ricorda bene, erano nello stesso quadrato). Per rispetto al
luogo sacro, con le divinità non si scherza, si è tolto il cappello e lo ha
lasciato su una panca accanto a lui.
Sciabola, coltellaccio e
una pistola (sicuramente carica) adornano la cintura, quelle non le ha
lasciate.
Saluta l’arrivo di Sua
Grazia, con un pigro cenno del capo, il massimo che si possa ottenere da lui e
ottiene in cambio un ammicco, subito distoglie lo sguardo tornando a puntarlo
all’entrata di una delle cappelline laterali.
Il paggio è lì, vestito
come la sera prima, senza coltello questa volta. Occhieggia a sua volta il Gatto,
disagio e preoccupazione evidenti. Un sorcetto tenuto d’occhio da un gattaccio di
strada.
Barid lascia anche lui il
cappello entrando, si inchina in direzione dell’altare centrale dell’Uno, per
poi accostarsi alla cappella. Il paggio si scosta. La Duchessina è lì
inginocchiata con le ancelle a recitare.
La cappella, era in
effetti prevedibile, è quella della Dama Asa delle Quattro Vite, a chi dovrebbe
rivolgere le sue preghiere una ragazza della sua età?
L’interno profuma di cera
e incenso. Dietro il piccolo altare ci sono le cinque immagini di pragmatica
della Dama: sono evidentemente dello stesso autore, uno stile piacevolmente
antiquato.
Ci sono le quattro vite:
la Giovane Vergine, la Madre del Demone, la Monaca Penitente e la Santa alla
Corte dei Santi. Al livello superiore il Martirio. È abbastanza stilizzato, il
sangue non abbonda: il corpo nella rozza tunica monacale giace decapitato sul
suolo della foresta, la testa è poggiata su un tronco in secondo piano, il capo
rasato, gli occhi aperti fissano gli astanti, la bocca è atteggiata a un
sorriso dolce e malinconico.
Molto bello.
Le recitazioni e le
preghiere non durano ancora a lungo, i tempi li ha calcolati bene.
Le tre donne finiscono,
compiono l’ultimo inchino, a cui lui si unisce, e si alzano.
“Cugino, Buongiorno.”
Riverenza. È vestita più semplicemente questa mattina, la gonna lunga e il
corsetto stretto accentuano la sua altezza e il suo fisico minuto. I capelli
sono intrecciati e nascosti sotto un velo bordato di un brillante colore rosso
reale.
“Cugina, ti saluto. Sono
venuto a scusarmi con te, per l’incomprensione di questa mattina.” Una pausa
poi si arrende. “E per essere stato troppo duro e scortese ieri sera.” Lei
accetta nobilmente con un cenno e un sorriso. “Ti prego di farmi sapere
qualunque altra cosa ti possa servire.”
Si avviano uno a fianco
dell’altro verso l’uscita della Cappella. Lei ringrazia, banali scambi di
cortesie formali. A un certo punto però sembra fare un gran respiro, si
irrigidisce, le piccole mani si stringono a formare piccoli pugni.
“Due cose in verità vorrei
chiederti, Cugino, spero che tu voglia concedermele.”
“Sono in mio potere?”
“Sì, penso di sì.”
“Dimmi allora.” Barid, si
guarda bene dallo sbilanciarsi, o fare promesse al buio. Le promesse nel suo
ruolo sono sempre pericolose. È l’amato fratello della Regina Autocrate, può
tutto, ma tutto viene con un costo, anche per lui.
La ragazza parla senza
guardarlo.
“Posso dare sepoltura a
mio padre e ai miei fratelli? Ti sarei grata, se potessi farmi riavere i loro
corpi.”
Si fermano sotto una delle
grandi arcate, ancelle e paggio, rispettosamente, un paio di metri indietro.
Lei continua evitare di guardarlo, i 64 spiriti li fissano. Dei, Spiriti,
Demoni e Santi ascoltano. Sa come e dove porre le sue domande la ragazza. Cosa
mai può dire in questo luogo di fronte a loro?
“Te li farò riavere e
avranno sepoltura.”
“Completi. Anche le loro
teste?”
Questo era molto, per
quanto volesse essere pio e rispettoso, almeno qui dentro. Ordini e tradizioni
andavano rispettati, le teste dei traditori andavano esposte.
“Le farò tornare qui, e
saranno sepolte con i corpi, appena sarà in mio potere, la cosa può soddisfarti?”
La ragazza alza il viso e
lo scruta
“Immagino di non poter
chiedere di più, vero?”
“No, Cugina, scusatemi.”
All’improvviso, lei
annuisce e sorride:
“Grazie, Cugino, mi levi
un grande peso dal cuore. Mi fai felice. Lo sapevo che non eri né cattivo, né
malvagio.”
“Bene sono contento.” Non
si può far a meno di ricambiare il sorriso di fronte a un complimento così particolare.
“Cos’altro posso fare per te?”
“Una sola altra cosa, ma
sono sicura è molto più facile. Gradiresti pranzare con me, se puoi?
Apprezzerei la tua compagnia.” Sorride, occhi pudicamente abbassati la perfetta
rappresentazione della giovane dama.
“Sarà un piacere per me,
Signora. Oggi stesso? Bene. Allora è deciso. Immagino che in cucina conoscano
bene i tuoi gusti.”
Fu Hax’ino, o Aksino, che
dir si voglia portar un'altra anfora di vino e a riempirgli le coppe.
Piegandosi la scollatura generosa era in bella vista e sorrise, invitante, a
Barid prima di allontanarsi, portando via l’anfora vuota.
Sono seduti in una delle
nicchie vicino al camino lui e uno dei Compagni, quello della cui astuzia si
fida maggiormente e che, finito di bere un lungo sorso, schiocca le labbra e rompe
gli indugi.
“E quindi?” chiede.
“Quindi cosa?”
“Quindi cosa volete da
me? Cosa vuole la Vostra eccellentissima Grazia? Ditemi. State qui a perdere
tempo a bere con me, quando avete quel gran bel paio di tette,” chiaro di chi
parlava, “che sospira con passione ogni volta che Vi guarda… Avete sempre una
gran magia con le donne.”
“Gli lascio regali che
valgono la metà di una dote.”
“Ottima magia.
Principesca.” Altra sorsata e cenno di approvazione. “Ma ora rispondetemi, come
posso servirvi? Eh?”
“Ho bisogno di parlare.”
“Beh va bene, immagino
che ci si distragga e si perda il filo del discorso se si prova a parlare con lei,
io mi distrarrei. E di cosa vogliamo parlare? Donne, cavalli o battaglie?”
“Non so che fare.”
“In fatto di donne, di
cavalli o di battaglie?”
“Siete odioso, amico mio.”
“Vostra Grazia, me lo
ricorda spesso. Riprovo a indovinare: Vostra Cugina, la figlia del Granduca?”
“Sì, Yaranno. Ci ho
parlato oggi, abbiamo pranzato insieme.” L’altro non replicò, e dopo un attimo
di silenzio Barid continua. “A quanto pare l’avevo già incontrata, anche se non
me lo ricordavo, lei sì invece. Venne a corte anni fa col padre. La sera ci fu
un gran ballo e lei mi ha raccontato che fui io che li guidai, lei ed altri
bambini, fino a una delle gallerie segrete del padiglione centrale da cui si
poteva spiare di nascosto il Salone e vedere la gente che ballava. Dice che le
feci fare pure un giro di danza.”
“È vero?”
“Bah… il fatto me lo
ricordo, lei in particolare in verità no, doveva essere veramente solo una
bambina tra tanti. Ero scudiero di corte a quel tempo, c’era una qualche
udienza e mi ricordo mi rifilarono tutta una masnada di ragazzini e ragazzine.
Li feci davvero sgaiattolare la sopra a spiare. Mi sembrava divertente”
“Quindi?”
“Anche lei ha perso la
madre da piccola.”
“Toccante, voleva
qualcosa?”
“I corpi del padre e dei
fratelli, per dargli sepoltura nelle cripte. Gliel’ho concessi… ho dato ordine,
anzi domani controlla tu…”
“E che altro voleva?”
“Parlare...”
“E di cosa? Quanta
reticenza…”
“Mi ha raccontato che è
promessa a uno dei figli di Balielly. Mi chiedeva se, secondo me, la vorranno
ancora, o se ora che non è più figlia di un Granduca il matrimonio salterà. In
quel caso se saremo noi a Corte a trovarle uno sposo.”
Una pausa. Il silenzio si
prolunga, ancora e ancora, entrambi sembrano fissare le loro coppe senza voler
riprendere a parlare.
“Ma davvero? Cos’è uno
scherzo macabro?”
“No, non vi sto prendendo
in giro io, e non mi stava prendendo in giro lei a me. Era sincera. È solo una
ragazzina.” Intercala una profanità più adatta a un accampamento militare che
alla sala di un castello. “Non so che fare. La sua, l’altro giorno, non era né
arroganza, né tanto meno disperato coraggio… era… era pura incoscienza.”
“Cosa le avete risposto?”
“Niente ho ascoltato,
sorriso, glissato. Che dovevo dirle? Cosa mai dovevo dirle? Forse: non ti
preoccupare piccola mia, non è un problema. La tua sorte è finire decollata per
esporre la tua graziosa testolina sui cancelli del Palazzo di Giustizia accanto
a quelle di tuo padre e dei tuoi fratelli? Niente matrimoni di cui darsi pena.”
“Argomento di sicuro poco
indicato per conversare civilmente a tavola.”
“Odioso.”
L’altro sorride di nuovo,
ma è un sorriso amaro e si sporge verso di lui abbassando la voce.
“Chiamo il Gatto, ve la
portiamo in un bosco e torniamo solo con la sua testa. Risolto.”
Un gesto di diniego.
“È di sangue reale.”
Risponde Barid, con altri basterebbe dire questo, ma l’altro, dopo un attimo di
silenzio, risponde.
“Non ho paura di
maledizioni, o che qualche Demone vostro antenato venga a prendermi. Lo
affronterei spada in pugno e vediamo come finisce.”
“No, non dubito del
vostro coraggio, ma non è comunque cosa che posso lasciar fare.” Uccidere
qualcuno del sangue non era cosa da prendere alla leggera, il Sangue era sacro
e non poteva essere sparso da chiunque.
“Non dovevate parlarci, lo sapete anche voi.
Adesso vi trovate di fronte a una persona reale, che non vi ha fatto nulla, che
magari è pure simpatica, una ragazzina che non merita certo questa sorte, vero?
Ma cosa dobbiamo fare è pure questo molto chiaro.”
“In nome di tutti i miei
antenati Demoni, non è facile. La ragazzina è innocente, dannatamente stupida,
ma innocente.”
“Cosa mai significa
essere innocenti, ditemelo Voi? A che serve esserlo? Quando abbiamo lasciato
Città del Sale al saccheggio perché aveva resistito, quanti innocenti sono
morti? Quante ragazzine innocenti hanno fatto fini peggiori quel giorno? E
l’ordine era vostro ed era mio.”
Il tono è duro, la
risposta non è da meno.
“Follia, c’erano buone
ragioni per fare quello che è stato fatto, e le sapete. Qui? Che utilità ne
viene? Nulla. È una ragazzina, illusa, senza contatti, alleati, appoggi e
denari. Senza cattiveria.”
“Ahh adesso capisco, o
siete diventato folle voi, o volete semplicemente che vi ripeta tutto quello
che già sapete.”
“Bene, allora fate
l’odioso e ditemelo.”
“Per prima cosa avete di
sicuro un ordine della Autarca, vero?” Aspetta che l’altro annuisca. “Uccidili
tutti e riportami le loro teste, questo vi ha detto, no? È non lo ha detto solo
per essere stata offesa, la nostra Regina è saggia, è saggia e donna ed è ben
cosciente di quello che serve che voi facciate. La ragazzina è pericolosa anche
da sola, anzi da sola lo è molto più del padre. Non sono i soldi, non sono gli
alleati, non è nemmeno la malizia, la cattiveria, anzi tutto il contrario. Lo
sapete meglio di me, l’unica cosa che le serve è quel goccio di sangue che
condivide con voi e la Regina. Il Granduca aveva una legittima pretesa sul
trono. Ma per fortuna era uno sciocco ambizioso. Incapace. Lo abbiamo beccato a
braghe calate, e portato alla sua distruzione.
La ragazzina è peggio,
lei non ha ambizioni per sé e non ha nemmeno potere lei stessa e questo la
rende lo strumento perfetto per chiunque invece abbia entrambe. È una semplice
bandiera, per chiunque vi voglia male. E ce ne sono tante di persone ambiziose,
che odiano voi e odiano la regina. E sono più furbi e capaci del defunto
Granduca. Lei è lo strumento perfetto per le loro ambizioni. Le ambizioni di
tutti quelli che non ne hanno titolo, e sono tanti, lo sapete meglio di me.”
“Un giocattolo.”
“Uno giocattolo, certo.
Non per malizia, sono convinto del Vostro giudizio, sono sicuro che in lei non
ci sia cattiveria, malizia o qualunque cosa. Ma questo non cambia la situazione
è inevitabile che succeda quello che deve succedere. È….. l’inevitabile
svolgersi degli eventi. Non può andare diversamente, perché questa è la natura
dell’uomo e del mondo.”
“Bene anche voi filosofo,
a quanto pare.”
“Io sono quello che Voi
mi comandate di essere. È inevitabile che degli ambiziosi vedano la sua
utilità, è inevitabile provino a usarla, ed è inevitabile quello che noi
dovremo fare, per evitare che la, a sua volta, inevitabile accada. Non c’entra
l’innocenza, non c’entra la bontà, non c’entra la sincerità. Noi singoli non
abbiamo voce in capitolo, agiamo sulla base di fatti inevitabili. Le nostre
scelte sono futili, non cambiano la realtà delle cose, la logica del potere ha
le sue regole, noi possiamo solo decidere quali esseri umani reciteranno la
loro parte e quali invece usciranno di scena. Ma le parti sono tutte scritte.”
Si riempirono nuovamente
le coppe.
“Le scelte che si
potevano fare le avete già fatte, quando avete giurato di proteggere vostra
sorella, la nostra Regina, contro tutto e contro tutti.” Sorride, ricordando.
“E veniste a svegliarmi in piena notte a chiedere il mio aiuto e dei miei
fratelli per fare entrare a Palazzo il regimento della Guardia Piccola e
metterla al sicuro…. E io avevo più affetto per Voi che buon senso e accettai
di rischiare la pelle, e come la rischiamo la pelle. Un suicidio.”
Porta alle labbra la
coppa e le beve fino in fondo di un fiato.
“Finito, parlare di
queste cose fa venir sete. Tesoro bello, porta un'altra anfora. Facci felici
Hax’ino.” Lui, a quanto pare, azzeccava il giusto accento.
La ragazza, che aspettava
in un angolo della stanza, arriva immediatamente, con nuovo vino, ancheggiando
e sorridendo. Riempie le coppe. Lascia l’anfora in mezzo a loro.
“Posso fare altro per voi
Signori?”
“Oh, no, tesoro, per me null’altro”
Sorriso malandrino. “Caso mai altro te lo chiederà Sua Grazia, tra poco.” Le fa
l’occhietto facendola ridere. Poi si rivolge di nuovo a Barid. “I vostri…
scrupoli… sono… nobili, non rassegnarsi, io credo, mantenga la nostra umanità,
ma sono futili. Amico mio, è inevitabile, prima o poi sarà o lei o voi. Agendo
adesso eliminate un rischio, salvate vite, addirittura.” Sorride, mesto. “Ma
tutto questo lo sapete meglio di me, volevate solo sentirvelo dire. Per
sentirvi meno solo.”
“La solitudine… ahhh non
c’è solitudine se si hanno buoni amici.” Le coppe vengono alzate una ennesima
volta. “La potrei semplicemente chiudere in monastero?” Propone all’improvviso.
“E un’alternativa logica, e le risparmierei la vita. Una vita da uccello in
gabbia, vero, ma una vita.”
“Non so cosa vi direbbe
la Regina, voi forse siete l’unico a poter disubbidire a un suo ordine…, ma vi
dico cosa penso io: i capelli tonsurati ricrescono. Le porte dei monasteri si
aprono. No, non è un’alternativa, è un’illusione.
Una pausa poi ripete
fissando la sua coppa.
“Posso farlo io.
Veramente. Per me non ne è nessuno.”
“No, non voglia che voi
vi macchiate di un sacrilegio. Mi prendo le mie responsabilità. Devo. Sarebbe
da vigliacchi. Farlo ricadere su di voi o su qualcun altro…. nascondersi dietro
di qualcun altro? Non lo farò. Le dirò cosa le aspetta, è del Sangue, saprà…
saprà… insomma.”
“Cosa avete? Perché tutta
questa… attenzione. Vi ha colpito così tanto? Cosa ha la ragazza?”
“Mi ricorda la Regina…
troppo…, non possono essere più diverse fisicamente, lo so.” Previene. ”Ma sono
uguali, entrambe forzate a recitare una parte che non hanno chiesto, una parte
mortale. Ne uccido una per proteggere
l’altra, ma sono solo un uomo mortale e non so cosa riserverà il futuro. Come
faccio sapere se quello che faccio è giusto?”
“Ora altro vino, poi
dimenticate tutto tra quelle tettine che vi aspettano. Ci penserete domani.”
Non ci pensò domani. La
prima udienza per ricevere i giuramenti di fedeltà andò oltre il previsto.
Non arrivarono, come si
pensava, solo i principali nobili della provincia, scaglionati nei giorni a
seconda della distanza e dal tempo necessario per percorrerla, piuttosto la
mattina del primo giorno la folla era tale che fu necessario schierare i
soldati e scudieri per tenerla sotto controllo.
A quanto pare metà città
si era presentata: Aristocratici, borghesi, e popolani. Sembrava che la gente,
passata la paura, avesse capito che gli eserciti reali non erano lì per
saccheggiare e far pagare il tradimento del Granduca alla popolazione e ora tutti
erano ansiosi di farsi vedere e di vedere il famoso Gran Bastardo. Tutti con
gli abiti della festa.
I due Prefetti cittadini vennero frettolosamente reclutati per far ordine,
regolare le precedenze e garantire le dovute introduzioni. I programmi che si
erano immaginati radicalmente modificati.
Le principali famiglie
della città vennero invitate a un pranzo (preparato in gran fretta), i borghesi
tirati a lucido ed ebri di tanto onore ebbero il privilegio di una
presentazione a Sua Grazia nella sala del trono (con momenti di rara commedia,
tra inchini malfatti e riverenze traballanti), mentre per i popolani ci fu un
saluto dalla balconata e poi, visto che non bastava, una caracollata improvvisata
per la via principale della città dal castello alla piazza del mercato e
ritorno, traboccante di gente, e questa volta acclamante.
In definitiva un
successo, al di là di alcune situazioni al limite del ridicolo e altre al di là
della noia sopportabile da un essere umano (di sangue reale o plebeo che
fosse), la provincia sembrava più che contenta di essere in pace con la Regina
e passata la sbornia di ambizione del defunto Granduca sembrava che tutti
volessero solo essere lasciati a vivere la loro vita, a “prosperare” come disse
nel suo brindisi a pranzo uno dei Prefetti. E alla prosperità e alla pace reale
si brindò e alla lunga vita della Regina e Autarca e a quella di suo fratello
il Primo Giudice.
Al Granduca, ai suoi
figli morti sul campo di battaglia, o all’unica sua figlia ancora in vita
nessuno fece nemmeno un accenno.
“…. Ho quindi deciso di
portare con me al mio ritorno alcune delle sculture che adornano la sala del
trono, ritengo possano essere una piacevole aggiunta nel Salone di Gala del
Palazzo Orientale, sono sicuro le apprezzerai.”
Sciocchezze, su carta si
potevano mettere solo cose simili: sulla situazione politica, su come avrebbe
rimandato indietro al più presto uno dei regimenti di fanteria per
semplificarsi la logistica, ma non poteva certo confessare quanto gli mancasse
e quanto gli pesasse starle lontano, questo lui e la Regina se lo sarebbero
detti a voce, non appena si fossero rivisti, ma non erano cose da affidare a
una lettera.
Con la coda dell’occhio, scorge
Aksino seduta sul bordo del letto, le mani incrociate in grembo, che lo fissa.
Si gira verso di lei.
“Ti sto annoiando.” È una
affermazione.
Lei risponde con un
sorriso e ovviamente nega. Diritto di annoiarsi lei non ne ha.
“No, mi piace vedere le
persone che scrivono. Le vostre parole saranno lette da qualcuno lontano, o
magari rimarranno per il futuro. Deve essere bello saper scrivere. A chi state
scrivendo?”
“Alla Regina.”
Gli occhi di Aksino divengono
improvvisamente enormi mentre le bocca si apre in una silenziosa espressione di
meraviglia. In un attimo è in piedi: compie un curioso balletto di indecisione,
al ritmo di un passo avanti, uno indietro, due in avanti, che la porta allo
scrittoio. Una mano scatta in avanti, le sue dite sfiorano la pergamena. È solo
un secondo, ritira la mano, nascondendola dietro la schiena e fa due rapidi
passi indietro.
“O santissimi spiriti, la
Regina la toccherà?” la mano riappare da dietro la schiena se la fissa, come
stupefatta.
Barid non può fare a meno
di sorridere.
“Si gioia mia, la Regina
molto probabilmente prenderà in mano questa lettera.”
Lei quasi saltella,
tenendosi la mano. Una risata nervosa.
“O santissimi spiriti!”
“Brucia?” scherza lui. La
ragazza diviene improvvisamente seria, si riguarda la mano e poi scuote la
testa senza parlare, guardandolo preoccupata. Lui scoppia a ridere.
“Mi state prendendo in
giro!” Protesta lei.
Barid le prende le mani
tirandosela vicino.
“Ti sei forse scottata a
toccare me?”
“Ma lei è la Regina! Io
non avevo mai nemmeno visto qualcosa che la Regina avrebbe preso in mano! Non è
vero che la Regina non si può guardare in volto?”
Sembra diventata una
bambina e non la ragazza spudorata che lo aveva allietato nelle ultime notti.
“Eppure io brucio molto
più della Regina.”
Il richiamo al suo ruolo è
sufficiente a spingerla a baciarlo, ma nei suoi occhi continua a leggersi lo
stupore.
“Voi prendete in giro pur
la Regina!” Cos’è? Paura, meraviglia, forse indignazione.
“Privilegio fraterno.”
Taglia corto, lo scherzo era stato più che sufficiente. “Ora, devo andare a
parlare alla Duchessina.”
Fa per alzarsi, ma lei
non si muove esitante e dopo un attimo di esitazione lei lo blocca.
“Ma è molto tardi!” Si
guardano. “La Signora Duchessina sarà già nelle sue camere per coricarsi.”
“A quest’ora? Che ne sai
tu?”
“Io penso di sì.” La
risposta è esitante.”Io…”
“La conosci bene?”
Lei evita il suo sguardo.
“No, non bene mio Signore. Io…”
“Però lo pensi…”
“Io.. scusate mio
Signore, io…”
“Tu parli tanto gioia
mia…” La ragazza continua a evitarne il suo sguardo. “Cosa pensi della
Duchessina?” Finalmente lo guarda, ma non apre bocca. “Dimmi, sono curioso…”
Gli occhi di lei si
riabbassano e inizia a parlare, lentamente parola dopo parola, in punta di
piedi.
“È una brava Signora… è
gentile con tutti… anche con me…. Ed è sempre generosa… non so…, Signore,
ecco…io non la conosco bene… è molto bella.”
Tace di nuovo.
“Comunque ti piace…” Lei
annuisce. “bah…. Si ti capisco. Vabbene ci sarà tempo domani mattina, anche per
completare la lettera. Ora badiamo a noi.”
Aksino sembra sollevata.
Non era nemmeno l’alba
quando lo svegliano, addormentato tra le braccia morbide di Aksino.
Questa volta non bussano
nemmeno prima di entrare.
“Vostra Grazia, ha
provato a fuggire.”
Pleonastico precisare di
chi si parlasse. Li manda via, si siede sul letto e si inizia a vestire, quello
che stava per succedere andava affrontato con gli abiti adatti. La ragazza
dietro lo osserva in silenzio. Lui non si volta a guardarla finché non è pronto,
gli stivali ai piedi.
Le mette in mano le
solite due pezze. Le sorride, fissandola negli occhi. Dovrebbe, ma non è
arrabbiato, solo tremendamente triste.
“Avresti dovuto far finta
di essere sorpresa quando mi hanno dato la notizia. Sai?”
Interrompe un balbettio
di scuse.
“Non sono adirato, non
con te.” Le prende il mento con una mano. “Ma la prossima volta quando sei
intorno a persone importanti non origliare e soprattutto non riferire ad altri
di quello che senti. Qualcuno meno tollerante di me potrebbe farti tagliare la
lingua o forse tutta la testa.” Lei ammutolisce. “Ora vai.”
Non se lo fa ripetere. La
osserva scappare ancora avvolta in un lenzuolo, le sue monete strette in una
mano, gli abiti nell’altra.
Non sarebbe stata una
bella giornata.
I primi raggi del sole
stanno iniziando a filtrare dalle finestre, quando raggiunge gli appartamenti
della Duchessina. Fuori delle porte è fermo un drappello di soldati guidati da
uno dei compagni che lo segue dentro. Nell’anticamera altri uomini.
Nella grande camera da
letto, il Gatto con altri due soldati armati.
Yaranno è seduta sul bordo
del letto, indossa ancora un caldo abito da viaggio in lana pettinata, una
mantella di pelliccia è appoggiata accanto a lei. Le due ancelle sono in piedi
in un angolo dietro il letto, il più lontano possibile dai soldati. Strette l’una
all’altra, anche loro con i vestiti caldi necessari per viaggiare in quella
stagione. Avevano pianto, sia loro che la Duchessina. Si vede chiaramente dai
volti.
Impiega un attimo per
individuare anche il paggio: è a terra, contro un muro. Le mani legate e il
viso tumefatto, un labbro spaccato. Ma è vivo, conoscendo il Gatto, quasi
sorprendente.
Qualcuno gli inizia a
spiegare la situazione, come dei cavalli e una carrozza li aspettassero fuori,
come avessero trovato una via fuga, come una delle posterle fosse stata
lasciata aperta. Di come, di sicuro, ci fossero complici in città.
“È vero quello che mi
dicono: che mi decapiterete?” Barid si gira a guardare la Duchessina. Si era
alzata e si era avvicinata. “È vero?” ripete.
Nella voce c’è una nota
di paura, ma la tiene nascosta sotto l’indignazione, la schiena dritta e la
testa alta, come il primo giorno. C’è forza in lei.
La guarda, guarda le due
ancelle, il ragazzo a terra, i suoi soldati e il Gatto mollemente appoggiato a un
muro come se fosse annoiato.
Un brivido gli corre
lungo la schiena: aveva già visto quella scena nei suoi incubi. Identica,
cambiavano solo i protagonisti. Lui a terra sanguinante, la rabbia impotente
della Regina, la disperazione delle ancelle, gli uomini di un altro pretendente
con le spade in pugno. La morte di fronte a loro. Sarebbe potuto finire tutto
in quella maniera, facilmente.
Non era andata così, lui
era stato più abile di quel paggio, la regina era stata più furba. Loro sono
vivi, e lo rimarranno.
“È vero?”
“Sì e vero, Cugina,
Yaranno. Vostro padre ha tradito.” E tu sei pericolosa, è vero, non lo sai non
te ne rendi conto nemmeno quanto sei pericolosa. Basta poco per essere in
posizioni invertite. E pure tu faresti quello che faccio io, per sopravvivere e
far sopravvivere le persone a cui bene.
Gli sguardi si
incrociano.
“Perché?” chiede
semplicemente. C’è ancora orgoglio nella voce, ma sul fondo degli occhi si
inizia a intravvedere la paura, la bestia, il terrore della morte, che spinge
anche i più coraggiosi a voltare le spalle, lasciare scudo e spada e iniziare e
scappare svergognandosi di fronte agli spiriti e agli antenati.
“Fuori tutti, lasciateci
soli. Fuori. Tutti.”
C’è trambusto, le urla spaventate
delle ancelle che venivano portate via e un ringhio del paggio, trascinato da
due soldati.
Dal ragazzo arrivò la più
banale delle minacce “Se le fate del male, io vi ucciderò” Non riesce nemmeno a
completare la frase, interrotto da una ginocchiata brutale e ben mirata, ma quello
che vuole dire è chiaro. Basta guardarlo per permettere a Barid di capirlo, questa
volta il ragazzo non abbassa gli occhi, brucia di… rabbia, sì, passione, anche…
ma soprattutto amore: erano così simili, erano tremendamente simili.
“Non gli fare male!” Lei
lo afferra per un braccio. “Non li punite, promettetelo. Non punite chi mi è
rimasto fedele. Hanno solo questa colpa.”
Lo sguardo del paggio
dice tutto quando Yaranno lo guarda, ma lei non sembrava proprio rendersene
conto. Povero stupido, folle ragazzino. Non solo meno abile di lui, a quanto
pare, ma pure molto più sfortunato. Però simile a lui, troppo per volergli
male.
Fa un cenno al Gatto. Basta
per capirsi: non li toccare. Viene ricambiato con sguardo quasi rassegnato. Il Gatto
è abituato alle sue nobili follie: per essere un aristocratico non è male, ma,
seppur bastardo, è pur sempre un aristocratico, valli a capire.
Rimangono soli. Tra loro
una calma irreale. Si siedono nelle sedute nel vano della grande finestra, garbati
computi, lei si alliscia la gonna con le mani, distrattamente. La scena
potrebbe sembrare banale e cortese: un gentiluomo venuto a intrattenere una
dama recitando un poema che racconta antiche gesta, oppure a corteggiarla
cantando una ballata o un sonetto d’amore, ma Barid non ha mano una sintra ben
accordata per accompagnare la voce. Rimango in silenzio, serve a entrambi un
attimo per riuscire a incrociare gli sguardi e ancora di più prima che lei
inizia lentamente a parlare.
“Non punirli, me lo
concedi? Sono gli unici che mi sono rimasti fedeli fino alla fine.
Nessun’altro.”
“Non gli succederà
niente, hai la mia parola. Né al loro né a chi vi doveva aiutare fuori di qui.
Non indagherò neppure.”
Lei ha riacquistato il
controllo del suo viso, ma le mani non riescono a stare ferme, gioca con i
bottoni del vestito, per tentare di nascondere i tremori.
“Io non mi ribellerò mai
a Sua Maestà, non sarò mai un pericolo, un nemico. Lo sai. Lo devo giurare?”
Scuote la testa. Come
dirlo?
“Non è quello che puoi
fare è quello che sei. Le azioni di tuo padre hanno risvegliato tutti quelli
che si oppongo alla Regina, ora guarderanno a te.”
“Ma io non ne ho colpa!” si
sporge in avanti e gli afferra una mano, la voce si alza, gli occhi chiari lo
fissano enormi. “Io non ne ho nessuna colpa!”
“Lo so.” La guarda negli
occhi dicendolo e le stringe forte le mani.
È questo a lasciarla
senza parole, la voce dell’uomo di fronte a lei non sa di affermazione o di
condanna, ma di resa.
Quando riprende a parlare
la sua non è nemmeno una domanda. “Ma non conta niente.”
“Nulla può cambiare chi
siamo. Lo sai. Tu sei la figlia di tuo padre.”
Lei libera le mani dalla
sua presa, i pugni stretti.
“Tu hai potuto scegliere
chi volevi essere, io non ho avuto nemmeno questa scelta. Tu hai potuto
scegliere da che parte stare.”
È lui questa volta ad
abbassare gli occhi per un attimo, poi decide di dire la verità, quella
nascosta, quella che lo aveva reso quello che era.
“No, Yaranno, non ho mai
avuto nessuna scelta, neppure io, ho preso l’unica strada che potevo prendere.”
L’unica scelta che poteva
fare. Se avesse fatta una scelta diversa i colori del mondo sarebbero svaniti
in cupo grigiore, ogni cibo avrebbe avuto il sapore della polvere, ogni suono
sarebbe diventato stridulo, l’aria che respirava sarebbe stata gelida. Non
poteva scegliere nulla di diverso e vivere.
Lei non lo capisce, forse
neppure ci bada. Il suo viso è concentrato, gli occhi fissi nel vuoto. Sembra stia
parlando a sé stessa, incredula di fronte a quello che si trova di fronte.
“Non c’è niente che io
possa fare, possa dire, niente che io possa cambiare.” Si sposta i capelli che
le sono ricaduti sul viso, la sua voce si fa sottile, cercando un qualche tipo
di conforto. “Cosa dovrei fare, allora? Cosa devo fare?”
“Devi essere quella che sei.
La figlia di tuo padre, una Nevrelly, una discendente dal Demone, porti il mio
stesso sangue, lo stesso sangue degli Autarchi.”
“Ho paura, come faccio?”
Barid istintivamente le
accarezza i capelli. Non è possibile trattenersi, anche questa è una magia che
conosce: è la bellezza della eterna bambina dagli occhi grandi e
dall’espressione stupita. Provoca la simpatia spontanea di chi sta di fronte,
un istintivo desiderio di aiutare e proteggere, specialmente negli uomini,
giovani.
Yaranno, è chiaro,
manterrebbe questa bellezza negli anni, anche a trenta, quaranta o cinquant’anni
avrebbe questo potere. Sì, diventerebbe una bella donna, a suo modo, una
bellezza strana ed esotica.
Ma non succederà, non
vedrà mai i suoi vent’anni e sarà proprio lui ad impedirlo. Si sente
disgustato, non lo aiuta il pensiero che le scelte sono fatte, sono state fatte
molto tempo prima e nulla può cambiarle.
“Controllala, la paura.
Quella c’è sempre, non la si può mandar via, la si può solo dominare.” Questo
aveva imparato, e questo le disse.
“Non so se ho questa
forza.”
“Io credo di sì, ricordati
chi sei. La forza c’è.”
Barid stesso non è sicuro
di cosa sta dicendo e di cosa può dire, spera solo, vigliaccamente, se ne rende
conto, che la ragazza di fronte a lui non scoppi a piangere rendendo il suo
compito ancora più penoso e miserabile.
Lei alza la testa, la
paura sembra di nuovo doma, almeno per il momento.
“Non ho fatto niente che
meriti questo. Niente per cui io possa essere condannata. Non c’è giustizia in
questo.”
“Non mi nascondo dietro
la giustizia. Faccio solo quello che va fatto.”
Lei guardò fuori della
finestra. Il sole stava sorgendo.
“Quando?”
“Io ti dico di non
aspettare, aspettare aumenterebbe solo la paura.”
Lei non si volta a
guardarlo, ma la sua voce diviene improvvisamente più fredda.
“Avete già il boia
pronto?”
“Non c’è bisogno di
nessun boia.”
Ora, sì, lo fissa in viso,
stupita.
“Tu?”
“Chi altri, Cugina? Hai
sangue reale. Nessuno può toccarti, sarebbe un sacrilegio. Qui ci sono soltanto
io. E io non mi nascondo, Cugina, non mi nascondo e mi prendo le mie
responsabilità.” Poi chiede. “Vuoi ti accompagni alla Cappella del castello?”
“No, ho già pregato
stamattina. Avevamo chiesto aiuto agli Spiriti per oggi.” Un sorriso triste.
“Credo che mi abbiamo già risposto.” Sembra finalmente arrivata sull’orlo del
pianto a quel pensiero, ma, dopo un lungo silenzio, riacquisisce un contegno,
si fissa un attimo le mani, appoggiate sulle gambe e poi chiede:
“Mi assicuri che sarò
sepolta con mio padre e i miei fratelli?”
Lui annuisce.
“Farai un’offerta per me?
E per loro? Posso contare su di questo?”
“Lo farò. Sarete accolti
alla Corte dei Santi come meritate.”
“Grazie…” Parla
lentamente soppesando le parole. “Hai promesso, che non punirai chi ha provato
ad aiutarmi.”
“Sì, non farò nulla
contro di loro. Hai la mia parola, sui nostri Antenati hai la mia parola.”
“Io volevo lasciare loro
qualcosa, addirittura, posso?… c’è qualcosa che posso considerare mio da…
lasciargli? Sono restati con me quando tutti mi avevano già abbandonato,
potevano farlo anche loro, ma sono rimasti.”
“Dimmi, rispetterò i tuoi
desideri, anche su questo.”
“I miei gioielli, vorrei
fossero divisi tra le mi due ancelle, sarà una ricchezza per loro. Poi vorrei
lasciare qualcosa ad Areth, il paggio, cosa posso lasciargli, a lui? Un
premio?”
Barid tenta di non
mostrare reazioni. Lei non si rendeva proprio conto che in quel povero ragazzo,
Areth, c’era molto più che fedeltà.
“Lasciagli anche un tuo ricordo,
Cugina, una sciarpa, uno scialle. Io gli regalerò un cavallo, un arco e una
spada.” Sperando che un giorno non provi a usarli contro di me, pensa.
“Grazie, farò cosi, dì
alle mie ancelle di trovare il velo di gala, è per lui. Posso chiederti un’ultima
cosa, anche se è stupida?” Per un attimo sorride “Rufi il mio cagnolino…”
“Quello piccolino? Col
pelo bianco e nero?”
“Sì lui, è scomparso
quando ci hanno fermato i vostri uomini, credo sia scappato da qualche parte…”
La precede.
“È nel castello, lo
troveremo, e avrà una cuccia calda, pasti abbondanti e tutte le attenzioni che
merita. Prometto anche questo. Altro da chiedermi?”
“No, non credo.” Prova a sorridere. “Non c’è
altro. E ora? Cosa devo fare?”
Barid si guarda intorno,
valutando il luogo, gli serve un minimo di spazio. Poi si alza, e va verso il
centro della stanza.
“Vieni qui.”
Lei impallidisce.
“Qui? Adesso.”
“Qui, nessuno a parte
noi, sarà veloce, non soffrirai. Sarà un attimo”
“Quanto vorrei odiarti.”
“Se ti può essere di
conforto, fallo.”
“Non ci riesco…”
“Vieni qui, Yaranno.”
Ripete tendendole la mano
Si alza, barcolla un
attimo. Lo fissa, gli occhi enormi.
Un passo, due, un terzo
con uno sforzo visibile
Poi si blocca: è veramente
troppo da chiedere ad una ragazza così giovane, poco più di una bambina.
“No ti prego, non voglio
morire.”
Si ferma lì in piedi,
immobile a due passi da lui, una lacrima le riga il viso, poi un'altra. La
bocca si contorce in una smorfia.
“Yaranno…”
“No, ti prego. Non è
giusto, non voglio.”
È lui ad andare da lei.
La ragazza non si scosta, non fa nulla per difendersi. Gli poggia solo le mani
sul petto come a tenerlo a distanza di un passo, lui rimane lì come se le sue
forze fossero davvero sufficienti a fermarlo.
“Un monastero.“ Balbetta
lei. Iniziando a singhiozzare. “Prendo i voti. Mi raso i capo. Il monastero più
lontano e sperduto. Tutti sapranno che sono morta, nessuno saprà dove sono. Lo
giuro, non dirò mai nulla, nessuno lo saprà. Ti scongiuro. Pregherò per voi,
per la Regina. Per favore.”
Barid china la testa, tace,
le stringe le spalle e, alla fine, lascia cadere le braccia intorno ai fianchi.
“Va bene. Un monastero.”
Si guardano, è lei a fare
un passo in avanti e ad abbracciarlo. Il viso affondato nel suo petto.
Anche lui la abbraccia
sentendola tremare. La tiene cosi fino a che non la sente, infine, smettere di
piangere.
Lei lo guarda, gli occhi
così simili e cosi enormemente diversi da quelli della Regina
“Grazie…”
Lui sembra sorridere
annuendo.
La mano destra le
accarezza la guancia la guancia, l’altra poggiata sostenerle la nuca.
“Tranquilla andrà tutto
bene.”
La mano scende
leggermente dalla guancia, gentile. Le sorride.
Un’ultima volta.
Il movimento è brusco, bisogna
metterci tutta la forza delle braccia e delle spalle per essere sicuri, si ode
un suono sinistro.
La afferra mentre le
gambe le cedono, per non farla cadere.
Per un attimo, prima che
gli occhi di Yaranno si spegnessero gli è sembrato di vedere una espressione di
stupore, ma era stato così rapido che di sicuro si era sbagliato.
La poggia sul pavimento immobile
e si accascia lì accanto, la testa bassa, inerte, immobile anche lui.
Rimane in silenzio
accanto a lei per parecchio tempo, mentre il sole che sorge illumina sempre di
più la stanza.
Alla fine, è il Gatto a
trovarlo così. Si ferma sulla porta, uno scudiero che sbircia alle sue spalle
con gli occhi sbarrati, grandi come piattini.
Sentendoli entrare Barid
alza lo sguardo, gli occhi che faticano a metterli a fuoco.
Cambia posizione
sedendosi rozzamente per terra, i suoi movimenti sono lenti, attutiti, come se
si muovesse con la difficoltà di un anziano e non dell’uomo giovane e atletico,
il temibile guerriero, che è.
Il Gatto vedendolo così
rompe gli indugi, lo raggiunge con quattro grandi falcate e lo afferra per un
braccio, senza delicatezza, senza riguardi, e lo tira in piedi quasi a forza.
Non lo lascia andare come se tema che possa cadere di nuovo.
“Vostra Grazia… alzatevi.” Dice infine nella
voce una inusitata traccia di premura. Solo allora Barid sembra riconoscere la
sua presenza con un cenno del capo. “Andate, Vostra Grazia, adesso penso io al
corpo.”
La testa di Barid scatta,
la schiena torna improvvisamente dritta come d’abitudine, il Gatto deve
lasciarlo e fare un passo indietro trafitto da uno sguardo di fuoco.
“No.” Si china, la
rigidezza e torpore scomparsi, solleva il corpo della ragazza, e lo sistema sul
letto in silenzio. Il Gatto che lo osserva in mezzo alla stanza, lo scudiero
sulla porta.
La sistema con cura, la
gonna, i capelli, le chiude gli occhi. Alza allo sguardo, sul muro, vicino al
letto, sempre lei. Asa: La Giovane Vergine, a mezzo busto, il vestito con un
largo scollo, i lunghi capelli rosso fuoco, gli occhi verde chiaro, il viso a
forma di cuore, lo sfondo in foglia dorata.
“Non va toccata, va sepolta
così, nella cripta. Con il padre e con i fratelli. Il corpo non va toccato.
Fate chiamare i preti.” Si volta a guardarli e fa un gesto allo scudiero che
corre via, felice di poter scappare.
Quando rimangono soli, è il
Gatto a parlare, la solita aria scettica, la voce pacata di chi deve convincere
un bambino testardo, ma con una sfumatura rassegnata già in partenza.
“La testa, vostra Grazia,
non dovete portare la testa a corte… ?”
“No. Il corpo va sepolto
intero. Basta così.”
I loro sguardi si
incrociano ed è Barid il primo a distoglierlo e a sorridere, triste.
“Ho fatto abbastanza. Parlerò
io alla Regina. Ci parlo io. Capirà”
Il Gatto scoppia a ridere
e scuote la testa, senza timidezze. Dimostra per l’ennesima volta di essere una
delle poche persone con sufficiente coraggio da ridere in faccia al Principe
Demone.
Come autore non posso far
a meno di sperare che il mio, moderno, piccolo rimaneggiamento di questo
classico, vi sia stato gradito. Era probabilmente non necessario vista la
quantità di versioni su carta e su pellicola che ne girano e tutte quelle che
sicuramente vedranno la luce nel futuro, ma ne sentivo io il bisogno.
Personalmente la storia
che ho appena raccontato mi ha affascinato fin da bambino, e ne sono rimasto
ossessionato per anni, incantato dal suo crudo realismo. Ora scriverne una
versione, farla mia, era un modo per soddisfare qualcosa di profondo e se io ho
provato gioia nello scriverlo, spero, ripeto che a voi non abbia dato pena
leggerla.
Per scriverla mi sono
ispirato a vari fonti.
In primo luogo alle
uniche due fonti primarie che abbiamo disponibili scritte entrambe da due
testimoni diretti, due dei Compagni: il poemetto scritto da Garth di Frasian,
in uno stile metrico ancora Centrale ma con uno spirito già Stilnovista, e il
capitolo che descrive i fatti nell’imponente cronaca “Gesta e Imprese del
Nobile Barid Mae Achsim, Condottiero, Principe del Sangue e Gran Giudice del
Regno”. Libro che sempre che non siate costretti a leggere per ragioni
accademiche o per una qualche penitenza, vi sconsiglio di affrontare, fidatevi.
Entrambe le fonti in
questioni sono estremamente, ovviamente, parziali. Entrambi gli autori erano
nel seguito del Gran Bastardo e le loro opere sono quando non agiografiche
quanto meno apologetiche nei confronti del loro mecenate, ma sono di testimoni
oculari e danno una visione irrinunciabile dello spirito del tempo.
Di altre fronti di
ispirazioni ve ne sarete accorti da soli: la prima citazione è tratta da un
romanzo famoso, e se avete studiato filosofia riconoscerete parti prese, per
quanto sembri incongruo e anacronistico, da i “Discorsi Morali” l’opera in cui Matheni
getta le basi della sua teoria della moralità umana e di come ci siano eventi
inevitabili al di là del nostro controllo.
Ma la lista potrebbe
essere molto più lunga. Al di là dei libri, se siete interessati vi consiglio
di recarvi nei luoghi che hanno visto questa storia.
Il campo di battaglia di
Manehald è visitabile. Vi è un tumulo, con un altare che marca una delle fosse
comuni e anche un piccolo museo che contiene i reperti che sono man mano stati
ritrovati: resti di armi, armature e finimenti e anche numerosi scheletri che
illustrano in maniera crudamente realistica cosa potevano fare le armi del
tempo.
Il Castello di Nevrel è
una proprietà privata, ma è anche lui visitabile, a pagamento. Il tour guidato vi
porterà in giro e potrete ammirare la Sala del Trono, assolutamente
imperdibile, la cappella, che rispetto all’epoca della nostra storia è stata largamente
rimaneggiata dopo un incendio, e la camera dei levrieri, chiamata così dal tema
degli affreschi, che è la stanza in cui si dice Yaranno sia stata uccisa.
L’aspetto è rimasto circa quello dell’epoca, anche se il mobilio non è
originale, specialmente il romantico letto a baldacchino che è del secolo
scorso.
Naturalmente il giro si
chiude con la Cripta e con le tombe della famiglia Nevrelly. C’è anche, ovvio,
quella di Yaranno, aggraziata da una sua scultura, successiva di almeno due
secoli, che, probabilmente, non le rassomiglia molto.
È non perdetevi le infinite
bancarelle dei souvenir, ovviamente.
Chi non conosce Asa Batimont di Accara? La Santa, la madre di Tarimannel il primo Autarca, la concubina di Marajael il conquistatore.
Se siete originari dell’Efalia è di sicuro una figura familiare fin dall’infanzia. Nella camera da letto di vostra nonna c’era di certo una sua icona. Poteva rappresentarla come una bellissima giovane vergine dai lunghi capelli color della fiamma, o come una monaca di mezz’età il capo rasato e la tunica di lana grezza, oppure poteva essere una rappresentazione più o meno cruenta del suo martirio, ma comunque era lì accanto al lettone in metallo.
Di lei avete sicuramente letto qualche romanzo che la vede protagonista, o visto qualche film o telefilm ispirato alla sua vita.
In qualunque caso, anche se aveste tentato di evitarla non ci sareste riusciti: durante gli anni scolastici vi avranno portato in gita a visitare il suo Mausoleo ad Antrah, e poi avrete passato lunghe giornate a studiare “Le quattro vite di Asa Batimont di Accara” del Mauriȥi, la pietra angolare su cui si è fondata della nostra letteratura moderna.
Naturalmente da scolaro la avrete odiata. L’incubo di affrontare la prima vita della Giovane Vergine, la seconda come la Madre del Demone, la terza come la Monaca Penitente e infine la quarta come Santa alla Corte dei Santi ha lasciato il segno nelle vite di tutti gli studenti.
Da adolescente invece potreste essere tornati a riaprirla, cercando di nascosto qualche passaggio cupo e scabroso nella seconda vita, scoprendo come anche dei versi vecchi di secoli possono essere sorprendentemente sensuali.
Qualcuno di noi la ha poi riletta persino da adulto comprendendo finalmente perché ci abbiano costretto a studiarla tanti anni prima.
Asa Batimont di Accara ha avuto la ventura di vivere in un’epoca di transizione tra le più drammatiche della storia. Furono decenni terribili, città vennero saccheggiate e rase al suolo, intere nazioni scomparvero, centinaia di migliaia di persone morirono o soffrirono pene indicibili, ma da tutto questa distruzione è nato il mondo dove viviamo e la nostra nazione e Asa fu una delle protagoniste di quegli anni, una protagonista involontaria sicuramente, ma degna di essere ricordata e studiata.
La prima domanda che si pone chi si accinge a studiare una figura storica è sicuramente capire chi ha veramente di fronte, e questo è quanto mai vero per Asa.
Il Mauriȥi la accredita di quattro vite spirituali, e noi possiamo tranquillamente dire che anche dal punto vista storico e storiografico Asa ha avuto quattro vite.
La prima Asa che riconosciamo è quella della devozione popolare. Quest’Asa nacque quando era ancora in vita: la peccatrice diventata una monaca penitente, la guaritrice miracolosa. Il suo monastero divenne ben presto un luogo di pellegrinaggio e lo divennero immediatamente anche la sua tomba e il luogo del suo martirio.
La sua era la storia perfetta per incantare la fantasia popolare: la bellissima fanciulla del sangue più nobile che aveva toccato, anche se suo malgrado, il più profondo abisso di depravazione (essere presa come concubina da un demone e generarne addirittura uno), e che dopo aver passato una intera vita di penitenze e preghiere raggiungeva le vette della santità, il tutto coronato dal martirio. La forza di questa narrazione è dimostrata dal fatto, che malgrado il passaggio di secoli ed epoche, la devozione verso di lei sia ancora fortissima e diffusissima: Asa è la protettrice delle partorienti e, un po’ ironicamente, della verginità, è la Santa di eccellenza a cui chiedere aiuto nelle difficoltà.
La sua “Seconda Vita” storica si sviluppa a partire dalla prima, ma con la differenza che non si tratta di una creazione spontanea venuta dal basso, ma di qualcosa di pianificato dall’alto e politicamente motivato.
Quando il figlio di Asa, Tarimannel il Primo, riconquistò il potere, tornando dall’esilio e uccidendo l’ultimo dei suoi fratellastri, incoronandosi come primo Autarca di Efalia, fu subito cosciente della necessità di dare un fondamento di legittimata al suo potere, non voleva essere (come erano stati suo padre e i suoi fratellastri) un conquistatore alieno, ma il monarca se non riconosciuto, almeno accettabile, da tutti, indigeni e invasori.
La spontanea devozione popolare verso la figura di sua madre era una ottima base di partenza. Il suo corpo venne esumato, il famoso mausoleo di Atrah costruito, sul luogo del suo martirio fu innalzato un monumento commemorativo (che poi nel corso dei secoli si è allargato fino a diventare l’attuale Santuario della Dama), commissionò opere d’arte e poemi per celebrarla (donandoci capolavori come le “Quattro Vite”).
Fu un grandioso spettacolo di pietà filiale. Totalmente falso ovviamente, probabilmente Asa aveva incontrato la sua progenie demoniaca ben poche volte e di sicuro non c’era amore tra i due, ma il messaggio politico era chiaro: Io sono un Signore dei Demoni, io regno su di voi, indegni umani e non, perché io sono un essere superiore, ma sono stato generato da una donna umana, una santa, e tramite lei posso capirvi. Posso avere pietà. Posso avere giustizia. Posso perdonare. Nel suo nome, grazie a lei, potete vivere in pace.
Questa è l’Asa Madre del Demone, una rappresentazione di nobilità, potere e pietà.
La terza Asa che conosciamo è la Santa della chiesa e della filosofia. Una figura talmente complicata che in queste righe si può solo accennare. Quello che possiamo dire che fu un’impresa di uno straordinario equilibrismo intellettuale mettere insieme i desiderata del potere temporale, la teologia tradizionale e la devozione popolare. Una contraddizione vivente tra quello che avrebbe dovuto essere la più profonda impurità rituale e i miracolosi segnali di santità, una contraddizione politica tra l’istinto di esaltare questa traiettoria di purificazione spirituale e l’ovvio problema di non poter stigmatizzare la fonte della sua caduta.
Una contraddizione che è stata il seme da cui si è sviluppato il pensiero etico moderno.
La quarta e ultima Asa, è quella più recente, quello che ha oggigiorno più successo di media e di pubblico ed è sicuramente la più lontana dalla realtà storica. Asa è una eroina, romantica, volitiva e avventurosa e non troppo religiosa. Questa è la protagonista di famosi romanzi che hanno fatto la storia e i gusti dell’ultimo secolo, ed è tuttora l’ispirazione su cui si basano i media moderni, quella che trovate al cinema o in televisione.
Queste sono le Asa che della storia e degli storici, chi fosse lei veramente è invece è molto più difficile da capire.
Su Asa molto ha stato scritto, ma dobbiamo essere chiari non abbiamo nessun documento di sua mano (non odiatemi, per favore, la Preghiera del Bosco è attribuita a lei, ma tutti gli studiosi concordano sia apocrifa), ma abbiamo alcune preziose fonti primarie a lei contemporanee che parlano di lei e che danno informazioni preziose.
Sulla Prima Vita, sulla Giovane Vergine, non sappiamo quasi nulla in realtà, i versi del Mauriȥi sono la versione condivisa, ma sono frutto di invenzione e licenza poetica, gli avvenimenti della sua giovinezza sono ormai persi nelle nebbie del passato. Sappiamo solo che era la figlia più giovane di una famiglia aristocratica, che aveva numerosi fratelli e sorelle, che veniva dalle provincie dalla costa. Una vita come tante altre, non degna di essere ricordate nei libri.
Tutto cambia per lei con la Grande Ambasceria, la situazione del regno è talmente disperata che come estremo tentativo si compie l’errore fatale di chiedere aiuto a Marajael e alle sue tribù, sperando di combattere i barbari con altri barbari. Si inviano doni di tutti i tipi e sei ancelle di nobili origini.
Quali fosse lo scopo delle ancelle è tragicamente chiaro, vista la ritrosia delle cronache reali di parlarne, escluso il rivelatorio dettaglio della loro dedica agli Dei, il che le rendeva sostanzialmente delle vittime sacrificali.
Delle sei fanciulle abbiamo solo il nome di Asa, le altre scompaiono nel nulla. Forse, fortunatamente per loro, ritornano alle loro case e alle loro vite, forse non sopravvissero all’incontro con Marajael. Qualunque sia la ragione, Asa è l’unica che rimane a corte e sembra prosperare nel favore di quello che diverrà a breve il nuovo signore indiscusso di Efalia.
Ci sono vari resoconti di ambasciatori alla corte di Marajael il Conquistatore che parlano di lei. Viene descritta durante le udienze seduta ai piedi del piedistallo del trono regalmente abbigliata, e gli ambasciatori non possono fare a meno di notare come venga a volte consultata dallo stesso Conquistatore durante lo svolgimento dell’udienza.
Altra documentazione di fondamentale importanza sono gli archivi delle petizioni. Molte, specie quelle della gente comune, sono indirizzate non direttamente al Signore dei Demoni, ma a lei e chiedono la sua intercessione. È un dato interessantissimo, sia perché sembra confermare che fosse in una posizione in grado di influenzare e scelte e chiedere favori (seppur di piccola entità), sia perché permette di capire come fosse considerata una protettrice del popolo ben prima che le venisse concesso di lasciare la corte e ritirarsi in monastero.
Un ultimo eccezionale documento che ci apre l’unico malinconico squarcio nella sua vita privata sono alcuni paragrafi di una lettera che una delle sue sorelle maggiori scrisse a una parente, dopo aver visitato la corte al seguito del marito e averla incontrata.
“Infine mi chiedi notizie di Asic’hia [NdA: un diminutivo familiare del suo nome] e posso dirti di averla finalmente incontrata di persona e di averci potuto parlare. Mi ha fatto la più grande delle impressioni.
Il suo abbigliamento è quello di una Regina, così come i gioielli che porta, gli appartamenti in cui vive e la servitù di cui dispone. Tutti a corte la rispettano e molti le vogliono bene. Come se fosse una Regina le ho dovuto chiedere udienza, ma quando l’ho incontrata era la nostra Asic’hia di sempre, dopo solo un attimo di esitazione ci siamo abbracciate con affetto e ci siamo sedute insieme.
La nostra sorellina è bella come sempre stata, la più bella di tutte noi, e se possibile in questi ultimi anni lo è diventata ancora di più, ma sul volto c’è un’ombra. È triste, e afflitta, tutti gli onori, dice sono vuoti e non servono a nulla. Mi ha chiesto di pregare e sacrificare per lei, e di chiedere la stessa cosa a chi, fuori dalla corte le vuole ancora bene. La sua vita in questo posto e a queste condizioni è tutt’altro che felice, e non sarebbe sopportabile senza la fede negli Dei e la speranza di poter fare qualcosa di buono per aiutare il nostro popolo.
Di più non mi sento di scriverti, ma ti rinnovo l’invito che ci ha fatto di fare offerte agli Dei a suo nome.”
Se vogliamo seguire i versi del Mauriȥi, rimasta incinta con grande meraviglia di tutta la corte e dello stesso Marajael convince il Demone che l’unica maniera per essere poter condurre a termine con successo la gravidanza è affidarsi agli Dei e offrire sé stessa in sacrificio, dedicandosi a loro come monaca e in questo modo ottiene la libertà e sfugge alla sua triste sorte.
Ovviamente questa è licenza poetica, ma di certo i fatti sono simili: rimane incinta, sopravvive al parto (cosa decisamente eccezionale visto il tipo di gravidanza) e solo pochi mesi dopo entra nel monastero di Rahibadi. Con tutti gli onori.
Sulla sua vita in un monastero di clausura ovviamente non abbiamo quasi nessuna fonte, a parte racconti e cronache dei primi pellegrini che si iniziano a recare da lei, man mano che si diffonde la voce che sia in grado di assicurare miracolosamente fertilità e una gravidanza sicura.
Il tutto ha fine nel 573. Marajael viene spodestato dal suo figlio maggiore, e costretto a fuggire per scomparire nella vastità delle steppe occidentali e non dare più nessuna notizia di sé.
Nel brutale tutti contro tutti della guerra civile che ne consegue, anche il figlio di Asa, Tarimannel, il più giovane della progenie di Marajael è costretto a scappare ad occidente (in attesa di ritornare trionfante alcuni anni dopo) e uno dei suoi rivali, versioni differenti indicano differenti mandanti, decide di eliminare anche Dama Asa, ancora così benvoluta nel cuore del popolo, temendo sia in combutta col figlio.
Asa viene prelevata dal monastero di Rahibadi da un gruppo di cavalieri con la scusa di doverla portare urgentemente a corte, ma in verità dopo poche ore di cavalcata, nel folto della grande foresta di Verden, la fanno scendere dalla portantina e la decapitano. Solo un attimo di esitazione dei cavalieri e una miracolosa tempesta di vento che spaventa i cavalli da occasione alle consorelle che l’accompagnavano di salvarsi fuggendo tra gli alberi e riportare la notizia del martirio al monastero.
Così finisce la permanenza terrena di Asa e inizia la sua quarta vita, su cui ovviamente, allo storico di questo mondo non è dato di indagare.
Commenti