Breve storia, non autobiografica
Sono un uomo, prossimo ai 50 anni. Sono al secondo matrimonio. Il primo si è esaurito per il troppo lavoro, e per i troppi viaggi di lavoro, di entrambi, che ci hanno allontanato l’uno dall'altra. Ci siamo guardati e abbiamo capito come, dopo tanti anni, il futuro delle nostre vite non ci riservava più nulla in comune. Così finì tutto in una maniera curiosa, cortese e civilissima che lasciò me e lei ottimi amici, perfetti compagni per viaggi, esotici e avventurosi, e ancora più complici di quando eravamo sposati; tutto ciò prima che le ovvie e comprensibilissime perplessità dei nuovi compagni di entrambi ci spingessero a diluire i rapporti e le frequentazioni.
Sono un uomo, prossimo ai 50 anni. Sono al secondo matrimonio. Il primo si è esaurito per il troppo lavoro, e per i troppi viaggi di lavoro, di entrambi, che ci hanno allontanato l’uno dall'altra. Ci siamo guardati e abbiamo capito come, dopo tanti anni, il futuro delle nostre vite non ci riservava più nulla in comune. Così finì tutto in una maniera curiosa, cortese e civilissima che lasciò me e lei ottimi amici, perfetti compagni per viaggi, esotici e avventurosi, e ancora più complici di quando eravamo sposati; tutto ciò prima che le ovvie e comprensibilissime perplessità dei nuovi compagni di entrambi ci spingessero a diluire i rapporti e le frequentazioni.
Quasi 40enne conobbi la mia seconda
moglie su un sito di incontri dedicato agli appassionati della particolare
sfumatura dell’erotismo umano di cui sono appassionato. Era una coetanea dalle
idee chiare e dai modi bruschi. Fu subito passione e poi amore. Ci sposammo,
dopo cinque anni: c’era da far felice la suocera che aveva sempre sognato la figlia
in abito bianco. Come disse una mia amica: non sei il primo uomo che si sposa
solo per amore.
Il nostro non è un matrimonio
tranquillo, abbiamo caratteri forti e diversi, così come è diversa la nostra
visione del mondo. Le nostre liti sono burrasche tropicali, le nostre
riappacificazioni appassionate.
La vita ce ne ha gettate addosso di
prove, siamo sopravvissute a tutte, feriti, acciaccati, mutilati, coi capelli
scompigliati. Non più forti come dice la melensa vulgata, ma di sicuro più
decisi.
Non ho figli, non li ho voluti, e lei
non può più averne. Da anni però siamo una coppia affidataria, per cui in
questa casa ne sono passati tanti di figli non nostri, ma tutti bisognosi di
calore, affetto e guida. Qualcuno ci vuole ancora bene.
Ho belle mani, da pianista, diceva mia
madre, e un gran bel sedere, mi dicono le donne, e l’unico amante omosessuale
abbia avuto (che, immagino, di chiappe se ne intendesse), ma non sono un uomo
particolarmente bello, però sono arrivato ai 50 senza pancia e con tutti i capelli,
il che è più di quanto molti possano dire. Ho una parlantina svelta, sono
estroverso e con un buon senso dell’humour e tanta autoironia, in qualche modo
dovevo compensare il look medio basso e mi sono arrangiato con quello che
avevo.
Questo in breve sono io, e quella che
segue è la storia che voglio raccontarvi e che spero non vi annoierà.
È una storia di passione e di attrazione
e si ambienta nell’ufficio dove lavoro. Scontato. Passiamo in ufficio la metà
delle nostre vite, dove mai dovremmo trovare sesso, avventure, amici e anche
nemici, se non in ufficio?
A valle dei prepensionamenti degli
ultimi anni, in azienda è arrivata una bella infornata di giovani: una marea di
ragazzetti e ragazzette tra i 24 e 28 anni. Giovani, carini, motivati.
È stata una rivoluzione, una ventata di
freschezza, di rinnovamento e di allegria, sia per il business, sia per
l’equilibrio ormonale di tanti colleghi, maschi e femmine. Tanto scompiglio,
che mi permettevo follemente di guardare ironico come se non mi riguardasse.
Nel mio ufficio ne ho due di stagisti.
Un calabrese ruggente e ambizioso che non la smette mai di inseguire le
gonnelle (con più che discreto successo peraltro) e che ho chiuso a forza per
intere serate nel mio ufficio a interrogare su diritto commerciale per fargli
passare gli ultimi esami, e un’elfetta friccicarella e sorridente che dimostra
molto meno dei suoi 25 anni e che si veste nelle maniere più fantasiose e nei
colori più squillanti.
Una pazza scatenata, che mi ha scambiato
per un misto tra un Oracolo e la sapienza incarnata, capace di presentarmisi la
sera in ufficio e, con sguardo candido, dirmi:
“Ti posso chiedere un consiglio, ma non
di lavoro, come se fossi non un padre, non voglio offenderti, non sei cosi
vecchio, ma almeno come un fratello maggiore?”
E mi sbrodola, senza prender fiato,
tutta la sua vita sentimentale e in special modo il suo ex che si ripropone
periodicamente come i peperoni dopo cena. La soluzione sarebbe ovvia, proprio
come con i peperoni: evitalo la sera. Non credo mi darà retta.
Mia moglie la appella sprezzantemente
come la “velina” e, presumo, sia stata per lungo tempo convinta me la portassi
a letto. Non capisce che non c’è nessun interesse, ma veramente solo infinita
tenerezza per tanto tumulto emotivo e tanta beata incoscienza. Dimostrazione
che il tanto decantato intuito femminile a volte proprio non ci prende.
Poi, un giorno, chatto per proporre un
pranzo a Giorgia, una cara amica di un altro ufficio. Una bella bionda, un po’
più giovane di me, molto scicchettosa e ben introdotta nella buona società,
sposata con un dirigente Mediaset una decina d’anni più vecchio, donna
simpatica e piacevole e che nell’intervallo tra i miei due matrimoni è stata
una apprezzatissima scopamica.
Ahimè, ha già preso accordi, ma perché
non mi unisco?
Vado all’appuntamento, tutti colleghi
che già conosco, escluso la neoassunta che lavora con lei e che mi presenta.
Federica.
Ventisei anni. Altezza media. Capelli
corvini, mossi, a metà spalla. Il viso un ovale perfetto. Grandi occhi chiari
di un ipnotico azzuro cielo . Labbra piene. Un naso sbarazzino. Molto, molto
graziosa.
È vestita in maniera molto semplice:
Pantaloni neri, scampanati. Una camicetta azzurra con dei fiori bianchi,
maniche a sbuffo, spalline larghe. Un filo di trucco. Se penso alla mia elfetta
figlia dei fiori o ad altre colleghe con minigonne ascellari e tacco 12,
Federica sembra sia vestita realmente per lavorare in un ufficio.
La rivedo, il mese dopo, a una cinque
giorni di formazione outdoor. È ora di cena del primo giorno e nella sala del
ristorante c’è il solito valzer per la scelta del tavolo e della compagnia. La
vedo confusa, un po’ persa che si guarda intorno come a cercare qualcuno di
familiare. La invito a unirsi al mio tavolo e lei mi dice che deve tenere il
posto anche per Giorgia. Una richiesta che per me è sempre un piacere.
Così, mi trovo a cenare, uomo fortunato,
con una bionda a sinistra e una mora a destra. Faccio da coppiere assicurandomi
che i bicchieri siano sempre pieni. Con Giorgia avvio uno dei nostri soliti ironici
duelli verbali a base di battute po’ risqué che sfiorano i doppi sensi. Teniamo
banco, un po’ di divertente cabaret e facciamo divertire il tavolo.
Federica è molto bella quando ride.
Dopo cena, Giorgia mi ronza un po’
intorno con l’evidente intenzione di rinverdire vecchi fasti, ma io sono
monogamo, monogamo seriale forse, ma monogamo, e con profondo sincero rimpianto
sono costretto a lasciarla delusa, sola e in cerca di un sostituto.
Incontro di nuovo Federica in giardino,
mentre mi bevo un ultimo bicchiere. È una bella serata, fresca, ma limpida, il
cielo è stellato. Le attacco bottone, senza malizia. È chiacchierina e gli
occhi le brillano. Effetto delle mie mescite a tavola, probabilmente. Ha un
fratello e una sorella. Un papà eccezionale. È laureata in economia aziendale.
Le piace questo, le piace quello. Ha già tutto pronto per il prossimo concerto
di Ed Sheeran fantastico, con cinque amiche, tutte pronte a cantare a
squarciagola. Ma che sorpresa all’università era iscritta alla stessa associazione
goliardica a cui ero iscritto io tanti anni prima, eccezionale!
Un paio di ragazzi la vengono
giustamente a rapire per andare a ballare dentro, mi invitano ad unirmi,
declino. L’invito è sincero, ma lasciamoli divertire. Ci salutiamo e salgo in
camera. Chiamo mia moglie e mi imbusto.
Il giorno dopo capito totalmente
casualmente con lei nello stesso gruppo per una sessione di orienteering.
Orienteering, ovvero: ti piantano in
mezzo al bosco con cartina e bussola, mo’ vediamo chi torna indietro più in fretta.
Tranquilli se non ti vedono per l’ora di cena chiamano la protezione civile.
Federica è appassionata di montagna e di
trekking, come lo ero io quando avevo ancora tutti i tendini e le articolazioni
che funzionavano. Le nostre conoscenze combinate, e un gran culo, portano il
nostro gruppo alla vittoria. Medaglia di cartone, risate, grandi abbracci
camerateschi e ci meritiamo un brindisi con una pinta di birra a testa, siamo
meglio di due scout pellerossa.
Per il resto della settimana facciamo
attività separate, ma condividiamo fissi il tavolo a cena, io, lei e Giorgia,
e, quando, dopo cena, silenziosamente, Giorgia scompare nel nulla, spesso ci
fermiamo a chiacchierare da soli o in compagnia.
La sera finale cedo, volentieri, alle
pressioni, il gran galà finale con musica dal vivo non si può evitare, e mi
unisco pure alla banda dei giovinastri per ballare un po’. Faccio la mia parte
e poi, prima di diventare eccessivamente ridicolo, mi siedo col direttore
commerciale a sbevazzare in un angolo.
Commenta vivacemente tette e culi, la
volgarità personificata, per poi passare direttamente a ipotizzare qualità
atletiche, abilità amatorie e disponibilità sessuale di ogni singola ballerina,
taccio, unica alternativa diplomaticamente accettabile.
Federica balla nel mucchio, i nostri
sguardi si incrociano un attimo, mi sorride.
“Ecco! Vedi! Che dicevo! Pompini a
gogò.”
Stronzo.
Se fosse finito tutto là, Federica oggi
sarebbe una bella collega come tante altre. Giovane e graziosissima, sicuro, ma
solo un caffè alla macchinetta se la incroci, un paio di battute divertenti
magari un po’ di autoironica nostalgia di quando avevo vent’anni.
Ma le Parche non avevano nessuna
intenzione di far finire tutto così.
Un outdoor di formazione non può che
culminare dall’attività più temuta da qualsiasi persona assennata: il “Project
Work” da fare in “Team”. Nel particolare i team dovevano essere coppie formate
da un vecchio esperto veterano che porta l’esperienza, e un giovane neoassunto
pieno di idee innovative e senza preconcetti. L’estrazione a sorte mette il
sigillo a quello che deve succedere.
“Sono contenta che facciamo gruppo
insieme, sarà divertente.” Ah, Federica, quante beate
illusioni, ero contento anch’io in effetti, almeno sarebbe stata una compagnia
piacevole. Tutta la mia esperienza non poteva preparami a quello che stava per
succedere.
Così, lavorando su una innovativa idea
di standardizzazione delle politiche di customer care sul mercato sudamericano,
inizia tutto.
Federica è energetica e motivata. Hai
idee e metodo, sa cogliere i collegamenti tra i vari aspetti. Le manca
l’esperienza, e la visione complessiva, ma è proprio questo il punto di questo
lavoro in coppia.
Di carattere è più timida di quello che
mi era sembrato nei nostri primi contatti e un filo troppo ansiosa di fronte
alla possibilità di sbagliare. Si lavora molto bene con lei, comunque, ha la
stoffa giusta.
La cosa che mi meraviglia è di essere
più smart di lei col PC. L’avevo già notato con altri neoassunti, ma l’essere
più digital di un ventenne continua a meravigliarmi. Deve essere, forse,
l’effetto di tutti gli smanettamenti giovanili con i sistemi a comandi
testuali, altro che programmazione per oggetti.
A casa, mia moglie si è da poco
finalmente rassicurata in merito ai miei rapporti con l’Elfetta, e stuzzica
chiedendomi se questo nuovo progetto porta una quinta. Faccio il complice e
rispondo a tono, con totale sincerità, che anzi di petto siamo scarsini, ma la
mia stessa battuta mi disturba.
Attribuisco questo mio disagio alla sua
crescente gelosia degli ultimi anni. La nostra intimità è stata sconvolta dai
suoi problemi di salute e ne soffriamo entrambi. Sto mentendo a me stesso, ma
non me ne voglio accorgere. Durante quelle ore di lavoro è iniziato un gioco di
sguardi e di sorrisi che mi dovrebbe essere più che chiaro.
Iniziava a succedere che rimanessi,
letteralmente, incantato a guardarla lavorare sulla nostra presentazione: il
viso illuminato dallo schermo, gli occhi concentrati, le sopracciglia
lievemente aggrottate, le labbra strette e serie. E poi, improvvisamente, si
voltava verso di me, e sorrideva, uno splendido sorriso che illuminava gli
occhi e il volto, e tutta la stanza, e io mi imbarazzavo e bruciavo dentro.
In quei giorni ebbi modo di conoscere a
memoria il profilo del suo viso, la forma del lobo del suo orecchio, la maniera
intrigante con cui arricciava gli angoli delle labbra, e lei sorrideva,
maliziosa, senza scostarsi. Anzi, ridendo argentina quando facevo una battuta,
sembrava crogiolarsi ad ogni mio sguardo.
Lavorando quei pomeriggi per un lungo
mese, uno accanto all’altra, con gli sguardi che si incrociavano tra noi è nato
un enorme non detto, ma che bisogno c’era di parlare in effetti? Cosa mai c’era
da chiarire? Era un linguaggio più antico di qualunque altro.
Non vinciamo nessun premio per il nostro
lavoro, ma meritiamo comunque una menzione d’onore. Una pacca sulla spalla con
finta familiarità per me dall’Amministratore Delegato (non sono un suo riporto
diretto, ma sono abbastanza in alto nella futile gerarchia aziendale da
rientrar nel suo universo visibile) e una stretta di mano e bacio sulle guance
con tanti complimenti e auguri di un brillante futuro aziendale per lei, rossa
come un peperone.
Il giorno di dopo di mi chatta, ancora
eccitata da tanta “visibilità”.
“Grazie di tutto, veramente, per tutto
il tempo che ci hai messo. È stato veramente bello, ho imparato tanto. Una
sera, se hai tempo, almeno un drink te lo devo offrire per ringraziarti!”
Un caffè a pranzo sarebbe decisamente
più opportuno, lo so bene, ma non lo dico. Lascio aleggiare l’idea. Mi
compiaccio alla sensazione, qualcosa di caldo all’altezza dello stomaco.
Passano alcuni giorni, poi una sera, è
tardi. Sono solo nel mio ufficio, fuori l’openspace dei comuni mortali è buio,
non c’è più nessuno. La mia porta è aperta da li vedo la tromba delle scale
illuminata.
Sento dei tacchi che ticchettano
scendendo le scale. Alzo lo sguardo. Federica. I nostri occhi ci incrociano.
“Ciao, ma che ci fai ancora qui così
tardi?”
“Dovevo chiudere una cosa”
Lei viene verso di me e io le vado
incontro. Ci fermiamo sulla soglia del mio ufficio. La luce alle mie spalle la
illumina.
“Ma come torni a casa?”
“Ho la macchina giù.”
“Sicura? Se no ti riaccompagno io. Non è
il caso di prendere l’autobus a quest’ora.”
Indossa lo stesso completo che aveva la
prima sera a cena all’outdoor: i suoi classici pantaloni scampanati, una
camicetta nera accollata con un motivo a spirali di pajette dorate, una giacca
rossa con delle larghe spalline. Ha il collo nudo. Solo due punti luce ai lobi
delle orecchie.
“Ma Giorgia ti fa fare così tardi?”
“Noi lei mi aveva detto di lasciar
perdere, ma io volevo finire.”
Parlando ci siamo avvicinati, non c’è
più spazio tra di noi. Le sue mani muovendosi sfiorano e accarezzano la seta
della mia cravatta.
I nostri occhi sono fissi l’uno
nell’altra. Ci sto affondando in quegli occhi.
Ad ogni respiro mi drogo con la
fragranza dei suoi capelli. Quasi mi gira la testa.
So bene quello che devo fare, l’ho fatto
tante volte, con tante donne: prenderle il viso incantevole tra le mani e
baciare quelle labbra deliziose. È quello che vuole lei. È quello che voglio
io. L’intero universo che mi circonda me lo sta chiedendo.
E prendo la mia decisione.
Penso al giorno in cui mi sono
inginocchiato, in salotto, di fronte a mia moglie, anello di diamanti in mano
per chiederle di sposarmi… e il mio cane geloso che si mise in mezzo a leccarmi
la faccia.
Penso a mia moglie su un letto di
ospedale ancora intontita dell’anestesia che mi fa: “Beh a quanto pare,
continuerò pure a romperti quando lasci il lavandino del bagno sporco. E,
peggio dovrai stare buono per un po’ sai?”
Penso a quella sera, in cameretta, mia
moglie che abbracciava uno scricciolo dagli scompigliati capelli neri, era
arrivato a casa nostra da pochi giorni e adesso sconvolto dall’emozione di
essere stato allo zoo e aver visto per la prima volta un “Leopaddo” ha perso
qualsiasi ritegno e piange disperato tutto quello che si è tenuto dentro per
chissà quanto tempo. So che tra poco loro due saranno al caldo nel lettone e io
finirò a cercare vanamente una posizione comoda, da solo, nel lettino, ma sono
felice lo stesso.
Ho deciso e faccio un mezzo passo
indietro, pochi colossali centimetri, e sento parte del mio cuore scheggiarsi e
morire in quel istante.
È come se l’avessi schiaffeggiata
all’improvviso. Negli occhi di Federica, dove fino a un secondo prima c’era
allegria, aspettativa e forse malizia ora c’è meraviglia. Dolore e confusione.
“Cosa fai? Perché ti tiri indietro? Io
sono qui.” Questo dicono i suoi occhi. Non ci sono
parole, nessun suono, ma non ce ne è bisogno: i suoi occhi parlano.
“Vai a casa è tardi.” E poi, incongruamente “Mandami un whatsapp, quando arrivi. Non farmi
stare in pensiero.”
Rimane ferma a fissarmi per un paio di
secondi, si volta e se ne va, in silenzio. Due passi. Poi come a ricordarsi.
“Buonanotte.”
“Buonanotte, guida prudente.”
Rimango sulla soglia della porta a
guardarla, mentre se ne va. A un certo punto si volta a guardarmi di nuovo per
un istante, un lampo color cielo, una lancia mi si pianta nello stomaco. Quanto
vorrei seguirla. Poche falcate, la raggiungo e sarà un incendio glorioso e
tremendo, tutto brucerebbe e si trasformerebbe in una landa desolata di cenere,
da cui spunterebbe forse un germoglio nuovo, fresco, verde, tenero da curare
con amore. Non mi muovo. Quelle ceneri sarebbero quello che resta di cose e
persone che mi sono care.
Scompare giù per le scale.
Mi risiedo alla mia scrivania. Fuori è
buio. Molto buio. Non pensavo che fare la cosa giusta fosse così buio e vuoto.
Non una parola è stata detta.
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