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Il Gattopardo - Tommaso Lante di Lampedusa


IL Gattopardo
Questa volta il libro che ho appena finito di leggere è il Gattopardo di Tommaso Lante di Lampedusa. Per completezza mi sono letto il libro e visto l’omonimo film di Luchino Visconti


È un classico e,diciamoci la verità, non lo avevo mai letto, quindi ho corretto una grava mancanza, meglio tardi che mai.

Primo punto è un libro piccolo e agile, a leggerlo basta un attimo, percui, se manca anche a voi, non spaventatevi pensando sia un pesante classicone, se vi rimane la possibilità di passare a settembre un'altra giornata in sdraio spiaggiati ce la fate… tiè magari due se non siete veloci.

Il film di Visconti, volendo, con le sue tre ore, è più impegnativo, ma rimane indimenticabile, e non solo per Claudia Cardinale. Dove mai potete trovare Alain Delon che lancia sguardi di gelosia a Burt Lancaster?

Significativo è notare come un grande regista come Visconti (con l’aiuto di grandissimi attori) crei ben 3 ore di ottimo film per trasporre un libro che come vi dicevo è decisamente agile, ed esce comunque un film che non pretende certo di essere esaustivo, ma anzi è pienamente apprezzabile solo avendo letto il libro. Ora pensate cosa può uscire fuori da certi film odierni che senza avere né Luchino Visconti né Burt Lancaster pretendono di riassumere in un paio d’ore volumi ben più impegnativi.

Su una opera simile potete trovare infinite recensioni, approfondimenti e commenti e tutti, di sicuro, molto migliori di quello che potrei mai scrivere io per cui tralasciamo e andiamo su alcuni punti magari slegati che mi hanno colpito personalmente.

Del libro la frase più ricordata e famosa è quella che Tancredi pronuncia prima di partire Garibaldino: “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi” che a vario titolo potrebbe essere ritenuto il motto del ns paese negli ultimi secoli e che definiamo proprio un atteggiamento “gattopardesco”, ma c’è un'altra frase che mi ha colpito anche di più, e che forse dice molto di più sul libro. Nel colloquio tra Chevalley di Monterzuolo e il Principe di Salina, quest’ultimo declina l’onore di essere nominato Senatore del Regno con il suo bellissimo e famoso discorso sui Siciliani che si considerano troppo perfetti per cambiare, ma pone anche un’altra motivazione molto più universale:

“Per di piú, come lei non ha potuto fare a meno di accorgersi, sono privo di illusioni; e che cosa se ne farebbe il Senato di me, di un legislatore inesperto cui manca la facoltà di ingannare sé stesso, questo requisito essenziale per chi voglia guidare gli altri?”

Questo ha scatenato in me una riflessione: la capacità di illudersi, di ingannarsi addirittura, come condizione fondamentale per poter guidare? Una affermazione potente e su cui si dovrebbe meditare, perché l’autore parla di illusione? Vuole forse dirci che anche il poter è in fin dei conti solo illusione? Ci illudiamo che abbiamo senso? O forse ci illudiamo di poter fare la differenza? Chissa potrebbe essere proprio un concetto legato al secondo grande filone concettuale del libro, che accenno qui sotto.

L’ultimo punto che vorrei affrontare è, scusatemi, estremamente malinconico, nel Gattopardo la critica ravvisa due grandi filoni concettuali. Uno storico/politico e un altro legato alla morte e alla decadenza o meglio alla Vanitas che svanisce nel tempo (e secondo alcuni è questo il vero punto del libro, quello che ci vuole dire l’autore e che tutto anche quello che sembra immobile ed eterno alla fine svanisce e si sbriciola polveroso). Questo secondo filone viene sviluppato specialmente nei due ultimi capitoli, la morte del Principe di Salina e la vecchiaia della figlia Concetta. (Nota: purtroppo entrambi i capitoli mancano dal film di Visconti, e il tutto viene accennato solo da alcuni discorsi di Don Fabrizio e nella penultima scena dal suo inginocchiarsi al passaggio di un Prete che porta l’estrema unzione. Peccato).

Ma torniamo al punto che mi ha colpito personalmente. Sul letto di morte Don Fabrizio ormai delirante fa mentalmente il bilancio della sua vita. Diciamolo, tra noi, la sua vita non sembra poi male: è un gran signore, ha avuto una moglie devota, ha avuto figli e figlie, è stata un uomo di fama, è stato nominato Accademico di Francia, eppure, ormai agonizzante, fa bilanci e si chiede che senso abbia avuto la sua vita, si chiede quali siano stai i momenti felici, cosa realmente gli abbia portato felicità, e qui nomina un solo essere umano, l’amato nipote Tancredi (invero oltre a lui accenna anche a Ciccio Tumeo il fidato guardacaccia, ma di sfuggita) e oltre a lui? Leggiamo:

“Dopo, i cani: Fufi, la grossa Mops della sua infanzia, Tom l'irruento barbone confidente ed amico, gli occhi mansueti di Svelto, la balordaggine deliziosa di Bendicò, le zampe carezzevoli di Pop, il pointer che in questo momento lo cercava sotto i cespugli e le poltrone della villa e che non lo avrebbe piú ritrovato; qualche cavallo, questi già piú distanti ed estranei.”

Gli animali, la natura, le cose semplici senza menzogne e senza sovrastrutture alla fine queste sono le cose che metteremo a biliancio alla fine?

Mi sto sempre più convincendo che sia così e Don Fabrizio me ne dà conferma.

Che alla fine in tutta questa Vanità destinata a sparire l’unica cosa che sia vera e che conti siano i momenti e niente te li può concedere di migliori che esseri che al domani non ci pensano.

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