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Tutto con gli amici dell'Associazione Culturale Byzantion.
Tema
di Taron a nord del lago di Van, sotto il regno di Basilio II
Illustrazione di Angus McBride da Osprey 247 Romano-Byzantine Armies 4th-9th Centuries |
In un gesto per lui abituale Hovhannes strizzò gli occhi, socchiudendo il destro, ormai appannato dalla cataratta, per osservare meglio la situazione usando l’occhio ancora nitido.
La
forra era piena dell’acqua delle recenti piogge, che scorreva veloce, ruggendo
e riempendo l’aria di spruzzi; al familiare odore di terra e muschio del bosco
si univa un sentore frizzante. L’unica maniera per attraversare era utilizzare
il ponticello malridotto alla sua destra. Un tempo era stato sicuramente
un’opera di pregevole e solida fattura, ma, adesso, solo le colonne in pietra,
che si poggiavano nel corso del fiumiciattolo in piena, rimanevano salde e al
posto degli archi, crollati per il tempo, l’incuria e l’azione di uomini
certamente malvagi, c’era solo un traballante tavolato, tenuto fermo in maniera
misteriosa e sicuramente provvisoria ed instabile
Non
gli piaceva quel ponte, non gli piaceva quel fiume e non gli piaceva quel
posto. In fin dei conti, non gli piaceva tutta la situazione: gli stava
antipatico il silenzioso monaco vestito di nero che lo seguiva, gli stava
antipatico il mulo che portava le provviste e i bagagli e si dimostrava mordace
e indisponente oltre il limite ammissibile anche per un animale della sua
razza. Oggi non sopportava neppure il buon Rupen che, avvolto nel suo mantello
di pecora, combatteva una battaglia di tenacia nel trascinare la malabestia,
non lo sopportava, malgrado fosse il suo fidato compagno da anni ormai e lo
avesse seguito fedelmente da un capo all’altro del mondo conosciuto.
Hovhannes,
però, era sempre stato un animo riflessivo, sotto le apparenze ruvide dell’uomo
d’arme e d’azione, e capiva di essere arrabbiato soprattutto con sé stesso. Il
problema non era né della situazione contingente né dei suoi compagni, era lui
stesso. Non dipendeva solo dal fatto che invecchiando stava diventando sempre
più burbero, ma si sentiva realmente insoddisfatto di sé stesso: si era ormai
convinto di aver fatto un grosso errore tornando a casa nella sua terra natale.
Avrebbe fatto di gran lunga meglio ad accettare l’offerta che gli avevano fatto
quando aveva deciso di congedarsi: una bella proprietà nell’assolata Grecia o
in Italia, terra fertile. Il che lasciava sperare anche in una bella vedova
interessata a un ricco possidente e magari persino una giovane vergine e dei
figli ed eredi. Fondare una famiglia e costruire una casa. Ma in una terra
straniera. Ecco perché era lì, di nuovo.
Non
avrebbe saputo dire nemmeno lui cosa si era aspettato tornando in Armenia, ma
certamente non quello che aveva trovato. Nessuna accoglienza festante, anzi suo
fratello lo aveva ricevuto con sospetto, quasi come uno sconosciuto. Negli
occhi la chiara paura che quell’uomo grosso e segnato dalle intemperie e dalle
spade dei nemici fosse lì per rivendicare la sua parte di eredità delle terre
paterne. Lo sguardo era cambiato quando si era reso conto che lui non aveva
pretese e anzi aveva con sé abbastanza ricchezze da comprarsi da solo la tenuta
più ricca della tema. L’avidità aveva sostituito il sospetto. Uno sguardo, se
possibile, anche più spiacevole.
Se
non aveva trovato la casa che si aspettava, non aveva neppure trovato il paese
che ricordava da giovane. Quella che aveva trovato in realtà era una terra di
confine perennemente in guerra. Una terra dove, dopo tanti anni, veniva
guardato con la diffidenza che si dedica ad uno straniero.
Si
riscosse dai pensieri, e si accarezzò i baffi che iniziavano ad ingrigire.
“Attraversiamo.”
Disse. “Risaliamo un po’ il costone sull’altro lato. E ci sistemiamo per la
notte. Ricordo un posto riparato e nascosto in cui possiamo accendere un fuoco,
per riscaldarci e mangiare qualcosa di caldo.” Nessuno disse niente e aggiunse
“Attenti a dove mettete i piedi, se cadete in acqua qui potete solo raccomandare
l’anima a Nostro Signore.”
Era,
lo sapeva, un avvertimento inutile: il mulo per quanto ostile aveva i piedi
saldi tipici della sua razza, Rupen era una specie di capra a due zampe, e
persino il prete, per quanto la lunga barba fosse di un bianco candido che
testimoniava una età veneranda, aveva il passo fermo e sicuro, aveva affrontato
la marcia senza lamentarsi e senza rimanere indietro.
Sbuffò, in qualche maniera irritato ancora di più dal
non avere vere ragioni essere irritato. Si assicurò il grande scudo rotondo
sulle spalle per non farsi sbilanciare e mosse il primo passo sulle tavole del
ponte.
Il
bosco era silenzioso intorno a loro, la quiete rotta solo da Rupen che zufolava
sottovoce un ribaldo motivetto popolare tra i soldati. Per fortuna si limitava
al motivo senza pronunciarne le parole che descrivevano gli occhi neri, e altre
più profane attrattive, della bella figlia di un locandiere. Non il testo più
adatto vista la compagnia di un monaco.
Seduto
vicino al fuoco, ben avvolto nel suo ricco mantello bordato di ricami,
Hovhannes era per la prima volta nella giornata moderatamente soddisfatto. Dipendeva
di sicuro dal tepore che iniziava a pervaderlo e dallo stomaco piacevolmente
pieno. Rupen aveva cucinato una pappa di semola e avena, aromatizzata da
pezzetti di lardo e cipolla e da alcune erbe che aveva raccolto durante la
marcia, che aveva avuto un effetto quasi miracoloso nel saziarli e riscaldarli.
Poteva essere piuttosto stonato nel cantare, ma nel cucinare in qualsiasi
situazione si trovasse e con qualunque cosa avesse a disposizione aveva pochi
rivali. Lo stomaco pieno aiutava un uomo e non solo tenendo in forze il suo
corpo.
Di
certo non si poteva negare l’influenza dello stomaco sullo spirito, riassaporò
l’idea che gli era balenata in mente. Era talmente profonda che di sicuro
doveva averla detta qualche saggio filosofo dell’antichità, ma, per quanto si
sforzasse, non si ricordava minimamente chi potesse essere stato.
Stomaco
a parte, era decisamente soddisfatto di essere ancora in grado di orientarsi
tra quei monti dopo tutti gli anni di assenza. Il sentiero era ancora quello
che si ricordava e anche lo spiazzo dove si erano fermati. Il ponte no, il
ponte se lo ricordava ancora in piedi quando era ragazzo, ma comunque erano
riusciti ad attraversarlo senza incidenti. Solo il mulo aveva dato problemi:
arrivato sul bordo del ponte aveva drizzato le orecchie, allargato le froge
pallide e puntato i piedi. Nella sua equina saggezza non scorgeva nessuna
sostanziale differenza tra le due sponde e non vedeva proprio la necessità di
rischiare la vita inutilmente su quel tavolato instabile. C’erano voluti
parecchi calci ben assestati per smuoverlo.
Aveva
già in mente la strada da percorrere il giorno dopo, non appena fosse sorto il
sole, e sperava che anche quella non fosse troppo cambiata, che una qualche
frana non avesse sconvolto tutto trasformando un ben protetto sentiero boschivo
in una ravina esposta ed insidiosa.
Non
era quello che aveva in mente quando si era offerto di scortare quel dannato
monaco al suo nuovo monastero, dove doveva prendere posto come nuovo Abate.
Doveva essere una comoda cavalcata per attraversare un passo frequentato, una
notte in una stazione di posta o magari nella foresteria di un altro monastero
a mezza via. Niente di troppo gravoso o complicato, giusto una buona azione per
iniziare a farsi accettare e benvolere. Quella del fratello gli era sembrata
un’ottima idea, anche se capiva che era anche un modo per disfarsi della sua
ingombrante presenza per almeno qualche giorno.
Invece,
subito prima del passo, era successo l’imprevedibile, la strada, se così si
voleva chiamarla, era intasata da gente in fuga da una incursione di infedeli,
curdi delle montagne. Le voci davano lo stesso Bādh ibn Dustak al comando,
migliaia di cavalieri armati fino ai denti, con l’intenzione di travolgere
tutta l’Armenia e tutto l’Anatolia fino al Bosforo.
Erano
sciocchezze ovviamente, ingigantite dal panico come sono sempre queste voci:
era solo una razzia, come accadeva spesso, magari più in forze del solito per
approfittare delle ribellioni che tormentavano l’Impero e vedere quali
sarebbero state le reazioni. Di Badh Ibn Dustak aveva sentito parlare: il
pastore che aveva lasciato le sue pecore per impugnare la spada e che si era
conquistato il suo piccolo regno tra i curdi delle montagne, in equilibrio tra il
Basileus dei Romani al nord e i
sultani che governavano gli infedeli a sud in Mesopotamia. No di certo, non era
niente di più che una incursione seppur sanguinosa.
Però
lui non poteva fare molto da solo e con quel monaco appresso, quindi aveva fatto
l’unica cosa saggia da fare in questi casi: rifugiarsi in montagna. Abbandonare
la vallata e i cavalli e scavalcare la montagna passando per i sentieri
conosciuti solo ai locali. Così la comoda cavalcata si era trasformata in una
lunga marcia che avrebbe spezzato le gambe a uomini ben più giovani di lui.
Si
riscosse dai pensieri accorgendosi che Rupen aveva smesso di cantare, messo in
allarme da qualcosa che si muoveva nel sottobosco. Un fruscio lieve e cauto.
Scosse la testa: era troppo lieve e troppo cauto per essere qualcosa di
pericoloso. Rupen rispose aggrottando le sopracciglia poco convinto. Era così
tra di loro, non servivano quasi parole.
Il
dubbio venne risolto a suo favore quando, dopo pochi istanti, l’ombra di un
grosso gufo passo sopra di loro silenziosa come un fantasma. Il fruscio si
trasformò in una corsa frenetica nel sottobosco per concludersi con uno
squittio disperato e agonizzante. Un ultimo fruscio di foglie, un rametto che
si spezzava e il gufo riprese il volo con qualcosa stretto nelle zampe. Si
concesse un sorriso soddisfatto rivolto a Rupen, che scosse le spalle con una
smorfia, odiava avere torto.
“Ecco
da dove vengono tante storie e leggende di fantasmi.”
La
voce del monaco lo colse di sorpresa, era rimasto in silenzio quasi tutto il
giorno, tanto da fargli pensare che fosse un voto di qualche tipo. La sua voce
mal si adattava all’aspetto anziano era forte e vigorosa, quasi giovanile.
“La
notte è sempre piena di creature strane,” ammise, “ma questo era solo un semplice
gufo a caccia di un semplice topo.”
“Voi
ne avete viste di cose strane immagino, avete viaggiato molto.” A quanto pareva
voleva fare conversazione.
“Sì
molto, sono stato lontano molto anni.”
“Vestite
come un Romano, infatti.” Ecco dove voleva arrivare, anche lui, si rattristò
Hovhannes, la voglia conversare improvvisamente svanita, ma rispose:
“È
vero, il mantello l’ho comprato a Costantinopoli e cosi i miei stivali.” E
andava orgoglioso di entrambi: quel mantello rosso scuro, bordato di ricami
dorati e i morbidi stivali di pelle gli erano costati un occhio della testa,
venivano entrambi dalle migliori botteghe della Mese e non sarebbero sfigurati
neppure a corte.
Il
monaco tacque un attimo, gli occhi erano neri e profondi, insondabili nel buio
della notte, ma sul suo visto sembrò passare una smorfia.
“Avete
servito l’Imperatore dei Romani.” Non era una domanda, ma sembrava tanto una
accusa.
“È
vero,” ripeté, “in molte terre e contro molti nemici. Sono un soldato.”
Concluse, in una maniera che gli suonò stranamente debole. Smise quasi di
respirare aspettandosi la prossima invitabile domanda, quella che gli
rivolgevano tutti da quando era tornato in Armenia, preoccupati e incerti:
quante nature credeva avesse Cristo?
Invece
l’abate distolse un attimo lo sguardo, abbassandolo a fissarsi i piedi, e
quando rialzò il viso si limitò a dire:
“Vi
sono molto grato di avermi scortato e del vostro aiuto. Non so come avrei fatto
senza di voi e la vostra esperienza, visto quello che sta succedendo.”
“Ne
sono lieto.” Borbottò, sorpreso. “Sono lieto di aiutarla.” Era sollevato di non
dover rispondere per l’ennesima volta su come avesse fatto a combattere e
servire insieme a degli eretici diofisiti, ma sapeva che c’era poco da sperare
che nella mente del futuro abate non si agitasse il dubbio di star viaggiando
accanto ad un eretico destinato alla dannazione. Come spiegargli che per lui, e
per tanti altri soldati come lui, era normale? Romani fuori, Armeni dentro, così
si diceva e nessuno faceva troppe domande.
“È
meglio dormire.” Provò allora tagliar corto. “Domani sarà una giornata ancora
più dura. Io e Rupen ci alterneremo coi turni di guardia.”
“Posso
farli anch’io.” Rispose il monaco e aggiunge a spiegazione. “Sono abituato a
vegliare per pregare, posso stare sveglio per sorvegliare e pregare.”
Hovhannes
assentì.
“Va
bene, ma inizierò io, la sveglierò quando sarà il suo turno e poi toccherà a
Rupen. Ora riposi, mi dia retta.”
“Prima
però ringraziamo il Signore con un Padre Nostro per averci protetto oggi.”
Non
gli si poteva certo dire di no, anzi ringraziare il Padre, e tutti i Santi per
essere arrivati sin là era giusto e doveroso. Hovhannes si mise in ginocchio,
subito imitato da Rupen che assunse la sua aria più pia, pronto a ringraziare
Dio se non per la giornata, sicuramente per la fortuna di avere un turno di
guardia più corto.
L’abate
si inginocchiò di fronte a loro, fece un segno e della croce e iniziò.
Alle
labbra di Hovhannes salirono istintive le rassicuranti parole a cui era stata
abituato in tutti questi anni:
“Pater hēmōn, ho en tois ouranois
hagiasthētō to onoma sou;”
e
rimase sbalestrato sentendo il monaco recitare in armeno:
“Hayr mer, vor hergeens yes
Soorp yegheetsee anoon ko”
Per
un attimo, si sentì di nuovo un ragazzo in piedi accanto a suo padre con tutta
la famiglia nella chiesa della tenuta, incespicò nelle parole e perse il ritmo
e borbottò il resto sottovoce, fino all’amen finale.
L’abate
si coprì la testa con il cappuccio e non riuscì a distinguere la sua
espressione, cosa dicessero i suoi occhi, se stesse ridendo di lui o fosse
scandalizzato.
“Adesso
è meglio che mi metta a dormire. Avete ragione. Buonanotte figliolo,
svegliatemi al mio turno.”
La sua voce non rivelava niente. Si avvolse nel
mantello e in una coperta e si distese, lasciando Hovhannes da solo nella
notte, con uno strano tumulto alla bocca dello stomaco.
Quando
qualcosa nasce male di solito finisce male, se non peggio. Questo era quanto
anni di esperienza gli avevano insegnato. D’altra parte, altra lezione
importante imparata sin da giovane, quando non hai alternative ti tocca stare
al gioco.
Fin
lì erano arrivati e mancava veramente poco per arrivare alla sua meta, al
monastero dove avrebbe consegnato il caro Abate e si sarebbe liberato da questo
impiccio. Mancava davvero molto poco, si poteva sperare di arrivarci entro sera
risparmiandosi un'altra notte all’addiaccio.
Solo
che c’era un intoppo, quello che stavo osservando dal costone, disteso pancia a
terra, nascosto dietro un rado cespuglio che si aggrappava alle rocce ai bordi
del bosco.
Un
centinaio di metri sotto di lui, proprio in piena vista del sentiero che aveva
sperato di percorrere, una colonna di cavalieri marwanidi avanzava senza molta
cautela come se fossero i padroni del mondo o almeno di quel tratto di terra
arida e pietrosa.
Erano,
forse, poco più di un centinaio, bei cavalli, ben attrezzati e armati: le
armature scintillavano, i finimenti sembravano nuovi. Era probabilmente una
delle colonne di collegamento tra le principali direttrici dell’incursione,
rastrellava le vallate laterali per controllare che non ci fossero nascoste
truppe che potessero colpirli alle spalle, o magari una piacevole occasione di
bottino da non perdere.
Erano
arroganti e sicuri di sé, fin troppo, a muoversi così senza precauzioni. Per la
rabbia sferrò un pugno sul terreno. Se solo avesse avuto 50, ma che dico, anche
solo 40 uomini abili e decisi, in quella valletta avrebbe potuto far scorrere
molto sangue nemico. Un posto stupendo per un agguato. Invece era solo a parte
Rupen e il Monaco. Quindi niente da fare.
Immaginava
che il Temarca avesse a questo punto radunato le sue truppe e fosse quanto meno
in marcia, ma, se non era stupido, avrebbe atteso al di là dei passi. Senza avere
una chiara nozione di quanti e dove fossero i nemici era inutile correre il
rischio di un agguato o di una battaglia improvvisata. Avrebbe lasciato quelle
valli al nemico e avrebbe sfidato Bādh ibn Dustak ad affrontarlo su un terreno
scelto da lui, se voleva, o altrimenti tornarsene a sud con quello che era
riuscito ad arraffare tra le montagne.
Una
strategia solida ed efficace, quella che avrebbe seguito anche lui, ma che
sembrava totalmente insoddisfacente quando ti sfilava sotto gli occhi una
splendida occasione di sferrare un colpo ben assestato ed erano le tue terre
quelle abbandonate al nemico.
Era
occupato in questi pensieri, quando al suo fianco strisciò Rupen, silenzioso
come un serpente, che occhieggiò anche lui in basso, tenendosi nascosto dietro
una delle rocce.
“Che
brutta gentaglia.” Disse. “Tutti infedeli senza Dio. Che bei cavalli, però.” Si
leccò le labbra. “Gran bei cavalli davvero.” Si guardarono senza parlare per un
attimo e poi andò a parare dove Hovhannes si immaginava. “Se facessero campo,
un bel scherzo gli si potrebbe fare, vero, mio signore?” Il pensiero gli
illuminò gli occhi e la bocca si piegò in un sorriso spiacevole. “Tutti quanti
glieli potremmo portare via. Un paio di gole tagliate e via con quei bei
cavallini.” Imperturbato dal silenzio di Hovannes andò avanti. “Bei cavalli da
riempire di gioia il cuore di un uomo… e di monete la sua borsa. Ricordate,
signore? Come facemmo quella volta a Capua. Vero signore?”
“No,
abbiamo altro da fare.” Tagliò corto Hovhannes. “Un altro compito.” E poi,
prima che potesse ribattere. “Non ti avevo detto di stare col monaco? Dove lo
hai lasciato?”
Rupen
non sembrò minimamente toccato da quell’abbozzo di rimprovero.
“Al
sicuro, sta ben nascosto tra gli alberi, col mulo. Sta al sicuro.”
Hovhannes
non considerava Rupen un semplice servitore, avevano viaggiato e combattuto
insieme per troppi anni. In troppe occasioni si erano salvati la vita a
vicenda, avevano combattuto spalla a spalla. Avevano diviso avventure e
bottino. Vittorie e sconfitte. Per questo tollerava da lui comportamenti che
non avrebbe accettato da altri e Rupen spesso si prendeva libertà che
lasciavano esterrefatti chi non li conosceva. Delle volte però esagerava.
Questa era una delle queste volte.
Voltandosi,
lo fulminò con lo sguardo, il fatto che l’occhio appannato non si mettesse mai
a fuoco bene, lo rendeva se possibile anche più strano e minaccioso, e sibilò,
letteralmente per non farsi sentire:
“Sei
una testa quadra, dura come quella di un montone e, dannazione a me, solo per
badare alle capre ci si può fidare di te! Nessuno è al sicuro in questi boschi.
Specialmente un inutile monaco più vecchio di matusalemme.” Iniziò a strisciare
indietro “Muoviti idiota!”
Strisciarono
indietro fino alla copertura del bosco.
“Torniamo
dall’Abate, in fretta.”
Rupen
rimase in silenzio, immusonito e contrariato dal rimprovero, era evidente, ma
almeno non ribatté e lo seguì senza parlare.
Tra
gli alberi, il sottobosco era abbastanza fitto da non permettere di vedere
lontano, ma non così fitto da rendere troppo difficile muoversi. Hovhannes si
trovava a casa in quei posti. Accompagnare a caccia suo padre in boschi simili
era uno dei suoi ricordi più felici: la fatica della marcia, l’eccitazione
trattenuta dell’attesa e dell’agguato, l’esaltazione del momento fatale e poi
la soddisfazione di una preda uccisa e, soprattutto, l’orgoglio di vedere il
sorriso compiaciuto di suo padre.
Risalirono
il fianco della montagna, tra gli alberi, Rupen dietro di lui di un paio di
passi, furtivi come se stessero seguendo un cervo, più per antica abitudine che
per una scelta ragionata. Fu così che sentirono qualcosa muoversi poco sopra di
loro.
Si
fermarono, immobili, tendendo vigili le orecchie. Il rumore di qualcosa che si
muoveva continuò, lieve, molto lieve, ma questa volta, Hovhannes ne era sicuro,
non era un topo, ma qualcosa di più grosso.
Ripresero
a muoversi, con la mano sull’elsa delle spade fino a che non videro un
movimento e si ribloccarono istantaneamente. Delle foglie si mossero, un ramo scricchiolò
e Hovhannes ebbe la certezza non si trattasse di un cervo o di un altro
animale.
C’era
un uomo che si stava muovendo subito sopra di loro, quasi sicuramente non un
amico e per di più si trovava esattamente tra di loro e la radura dove li
attendevano il monaco a il mulo.
Adesso
l’importante era muoversi in silenzio e non farsi scoprire. Con un po’ di
fortuna era solo uno, con un po’ di fortuna anche il monaco e quell’odioso mulo
sarebbero rimasti silenziosi e magari lo sconosciuto non si sarebbe accorto di
loro. Intanto però ripresero a salire, spostandosi leggermente verso destra,
per arrivare almeno alla stessa altezza, per non trovarsi in svantaggio in caso
di un combattimento.
Recuperarono
lo svantaggio di quota, continuando a seguirlo di nascosto. Era uno dei quegli
infedeli predoni e tagliagole di sicuro. Indossava una veste fluente di colore
chiaro con un corpetto, niente elmo, il capo avvolto da un turbante. Aveva una
spada al fianco, una faretra in spalla e in mano l’arco. In qualche maniera la
cosa tranquillizzò Hovhannes, sembrava stesse andando a caccia, alla ricerca di
qualcosa per arricchire la cena, non che fosse in esplorazione in cerca di
nemici.
“Vattene.”
Mormorò. “Tornatene dai tuoi. Vattene da qui. San Gregorio, aiutaci tu.” Giusto
mentre rifletteva quale penitenza avrebbe potuto proporre in cambio della
grazia del suo Santo protettore, la sorte confermò di non essere dalla loro
parte e che quando qualcosa andava male c’erano poche speranze si raddrizzasse.
Il
mulo, dannata bestia, potesse bruciare all’inferno, nemmeno degna di essere
macellata per dar da mangiare ai cani, il mulo maledetto emise un raglio
strozzato, uno solo, ma perfettamente udibile. Il maomettano di fronte a loro
alzò la testa meravigliato e prima che potessero reagire si mosse in direzione
del rumore, proprio sopra di lui.
Lo
seguirono il più velocemente possibile e lo videro emergere nella piccola
radura dove avevano lasciato il monaco. Fu questione di istanti, in
combattimento è così: il tempo passa in modo strano, accelera e rallenta, fino
quasi a fermarsi, un colpo di spada può sembrare lentissimo, per diventare
all’improvviso velocissimo, un intero duello può terminare in un solo attimo.
Il
monaco si voltò, mentre il cappuccio gli scivolava scoprendo una chioma candida
quanto la barba, era chiaro, pur osservandolo di spalle, che lo sconosciuto non
si aspettava quello che aveva trovato e per un istante rimase incerto e
meravigliato, un istante prima di alzare l’arco e tenderlo.
Hovhannes
accelerò il passo, entrando nella radura di slancio e sguainando la spada, la
sua proprietà più preziosa, poco meno di quattro piedi del più splendido,
luccicante, acciaio di damasco, un prezioso bottino conquistato anni prima.
L’infedele,
sentendolo, si voltò di scatto. Non indossava un’armatura, ma un corsetto
leggero. Gli occhi erano neri come i suoi, la carnagione forse un filo più
scura, ma forse no. Tracce di peluria morbida gli decoravano il mento e le
guance di una specie di barbetta appena spuntata. Era giovane, più giovane di
quando lo fosse Hovhannes la prima volta che era andato in guerra, a malapena
un uomo.
Furono
la gioventù e la mancanza di esperienza a condannarlo, avrebbe potuto scoccare
a distanza ravvicinata o provare a scappare, avrebbe avuto almeno una
possibilità, ma non fece nessuna delle due cose. Esitò, di nuovo, e provò a
fare un passo indietro per acquistare lo spazio necessario a sguainare la
spada. Ma si mosse troppo tardi e non abbastanza in fretta. L’allungo di punta
di Hovhannes lo raggiunse in pieno sotto lo sterno.
Sentì
tutto nel polso: un attimo di resistenza del corsetto imbottito, e poi la lama
affilata che affondava morbidamente nel corpo, solo una lieve vibrazione quando
sfregò contro un qualche osso e, infine, la pressione che diminuiva
all’improvviso quando lo ebbe attraversato da parte a parte spuntando dalla
schiena.
L’arco
cadde per terra e le mani del ragazzo gli afferrarono il polso, ma già non
c’era più forza in quella presa. Si guardarono negli occhi, il vecchio e il
giovane. Con un movimento rapido Hovhannes si liberò e fece un passo indietro,
estraendo la spada dal corpo, con un disgustoso rumore di risucchio, per
riportarsi in posizione e colpire una seconda volta.
Non
ce ne fu bisogno, come privato da un sostegno, le ginocchia dell’altro si
piegarono e cadde all’indietro, finendo su una radice ricoperta di muschio.
Disteso
per terra, tentò di parlare, forse voleva lanciare l’allarme o forse solo
raccomandare l’anima al suo Dio, ma emise solo un gorgoglio, mentre la bocca
gli si riempiva di sangue e gli occhi di paura.
Senza
esitazione, senza guardarlo di nuovo in faccia, Hovhannes lo trafisse al collo,
finendolo. L’odore del sangue arrivò forte alle sue narici.
“Era
al sicuro! Vero?” fece Hovhannes e rovesciò su Rupen una impressionante serie
di imprecazioni, che l’altro accettò a testa bassa, senza replicare,
consapevole del rischio che avevano corso. Solo quando si fu sfogato della
rabbia e della tensione, ripulì la spada e la rinfoderò.
“Ora
dobbiamo nascondere questo corpo.” Disse. “Per guadagnare tempo, e andarcene da
qui il più velocemente possibile.”
Li
guardò, Rupen annuì continuando a non guardarlo, l’Abate era talmente pallido
da sembrare persino più bianco della sua barba e non rispose, gli occhi persi
nel vuoto impegnato a recitare sottovoce una qualche una preghiera.
Solo il mulo ricambiò il suo sguardo. Lo fissò
impassibile, poi sbuffò ostentatamente e abbassò la testa tornando a brucare.
Impiegarono
altri tre giorni per raggiungere il monastero, compiendo un largo giro per le
montagne, sempre più stanchi e alla fine quasi senza nulla da mangiare. Tre
giorni ansiosi dormendo poco, preoccupati, prima, di poter essere inseguiti e
di cadere in agguato e, dopo, di essere avvistati sulla roccia nuda una volta
saliti sopra la linea degli alberi. Tre giorni culminati nella salita finale,
da spaccare le gambe e mozzare il fiato, verso il pianoro su cui erano
abbarbicate quelle antiche mura sbiancate dal sole.
Alla
fine, persino il dannato mulo si dimostrò utile, anzi salvifico. Malgrado la
forza d’animo e la tenacia dimostrata fino ad allora, l’Abate dovette cedere
all’età e allo sfinimento, durante il secondo giorno, e fu il mulo a venirgli
in soccorso portandolo in groppa, insolitamente docile, con passo morbido e
sicuro
Era
ormai il pomeriggio inoltrato, quando raggiunsero le porte del monastero. Non
li fecero aspettare, li avevano avvistati già da parecchio e riconosciuto che
non erano un pericolo, anzi. Le porte si aprirono in fretta e vennero
circondati da monaci apprensivi e servitori pieni di attenzioni che li
accolsero con grida di gioia quando videro chi era con loro. Li liberarono dei
pesi, gli porsero cibo, acqua e vino dolce e li portarono a riposare su un
letto semplice e forse duro, ma caldo e pulito.
Dopo
un profondo sonno ristoratore, Hovhannes aprì gli occhi al sorgere del sole,
non fu la luce e non fu nemmeno il tramestio dei monaci che si affrettavano
alla colazione e poi in chiesa a svegliarlo, fu una lunga abitudine da soldato.
Si rivestì con calma sistemando alla meglio quello che gli avevano dato: i suoi
vestiti erano stati portati via per essere puliti e lassù non c’era nessuno
della sua corporatura.
Una
volta vestito, esitò un attimo, indeciso se prendere la spada, che lo aspettava
appoggiata contro il muro, poi decise di no: era inutile, sconveniente addirittura
in un posto come quello.
Uscì
all’aria aperta e senti sulla pelle l’aria mattutina che era fredda e
stimolante a quella altezza. Le celle davano su un porticato, sul lato
settentrionale del complesso. Il cortile di fronte a lui era spoglio e sassoso
quasi senza una pianta, escluso che nell’orto alla sua destra.
Ispirò
profondamente, gli sembrava di sentire l’odore della pietra, quella della
montagna e quella degli edifici che lo circondavano. La notte di sonno e il cibo
abbondante della cena gli avevano ridato forza e spirito. Si accarezzò lo
stomaco con una mano cercando di ricordarsi dov’era il refettorio. Qualcosa ci
sarebbe stato bene per cominciare la giornata.
Si
avvicinò alla porta della cella dove riposava Rupen e sorrise sentendo il
russare profondo che veniva dal suo interno. Tipico del vecchio Rupen: mangiare
tutto quello che si poteva quando c’era occasione e dormire in ogni occasione
possibile. Quale profonda saggezza! Lo lasciò stare, era sicuro che i monaci
avrebbero trovato qualcosa da mangiare anche per lui a qualunque ora si fosse
svegliato.
Attraversò
il cortile, osservandosi intorno: al centro del complesso, il baricentro della
vita di quel luogo, si trovava la chiesa costruita, come il resto del monastero,
nella pietra grigia locale. I muri erano spogli, grossi blocchi allineati con
precisione, ma senza vezzi. Il tetto era alto e spiovente, adatto alle nevicate
invernali e all’incrocio tra il transetto e la navata non si trovava una cupola,
come era d’uso a Costantinopoli o in altri paesi cristiani, ma un alto tamburo
che culminava in un tetto aguzzo, somigliante a quello di fienile.
Il
resto degli edifici, le celle per i monaci, il refettorio, la biblioteca, le
stalle, la foresteria e tutto il resto erano sparsi senza un ordine apparente
intorno a quel punto centrale. Tutti costruiti nella stessa pietra e in maniera
simile, anche se per la maggior parte coi tetti d paglia e legno.
Il
tutto era circondato da una robusta cerchia di mura di pietra, non troppo alte,
ma che all’occhio esperto di Hovhannes, che aveva potuto esaminarle a lungo
mentre si avvicinavano, risultavano salde e ben costruite.
Dopo
una vita passata a combattere la valutazione fu istintiva, inconsapevole, una
sensazione non espressa a parole: unite alla posizione e al luogo così remoto
rendevano il monastero un posto molto difficile da prendere, se ben difeso e se
non veniva colto di sorpresa.
Quando
trovò il refettorio, i monaci avevano già finito di mangiare ed erano già
andati in chiesa, ma un servitore si affrettò a dargli un piatto: formaggio e
del buon pane ancora caldo. Mangiò in solitudine e in silenzio. Non gli era mai
dispiaciuto il silenzio, ma fu in quel silenzio e in quella solitudine che la
sua mente riprese a rimuginare e la pace che aveva appena sfiorato lo abbandonò
di nuovo.
Tutti
i dubbi che lo avevano colto tornarono anche più forti. Dopo tutti quegli anni
era ormai uno straniero anche nella sua terra origine, come in ogni altro
paese. Era stato per anni Ioannes l’Armeno e ora lì era Hovhannes il Romano.
Straniero ovunque, a casa in nessun posto.
Forse
valeva la pena di ripartire. Rimettersi di nuovo in strada, assaporare le aspre
gioie del viaggio, rivedere Costantinopoli.
Non
era una fuga? Accettare la sconfitta. Lui non si era mai arreso, aveva sempre
tenuto la linea, ovunque fosse stato, tutti sapevano che Ioannes l’Armeno non
scappava e non era un vigliacco. Era orgoglio, era, se ne rendeva conto, anche
testardaggine.
Senza
contare che ormai i suoi capelli e i suoi baffi erano spruzzati di grigio e
presto sarebbe stato troppo vecchio, non abbastanza giovane, si corresse
ironico, per la vita vagabonda che aveva sempre condotto.
Finito
di mangiare, era uscito dal refettorio, alla luce del sole, sotto un cielo di
un azzurro intenso senza una traccia di nuvole e passeggiò, vagando, guardando
senza vedere le attività che fervevano intorno a lui.
Il
filo dei pensieri venne interrotto da un giovane monaco che si gli si parò di
fronte, facendolo sussultare dalla sorpresa, un ragazzo dall’aria patita e
dalla faccia pallida e aguzza che esitò un attimo a parlare, intimidito dalla
sua reazione e dal suo viso severo.
“L’abate
vorrebbe parlarle, Signore.” La voce sottile come tutto il resto
“Dove
posso trovarlo?”
“In chiesa” Rispose il ragazzo con un tono
meravigliato, come se fosse scontato.
Una
volta entrato e abbandonata la luce del sole, l’unico occhio ancora buono ci
mise alcuni secondi per abituarsi alla penombra della chiesa e permettergli di
osservare i particolari dell’interno. Il colore dominante era il grigio della
pietra, non c’erano affreschi o mosaici, nessun colore, ma non era spoglio. Le
mura così semplici esternamente, all’interno erano finemente scolpite a
bassorilievo: croci ricoperte di fiori e rampicanti, figure di uomini, santi,
angeli e demoni e bestie conosciute e fantastiche. Il volto di Cristo,
circondato dai quattro simboli del leone, dell’aquila, del bue e dell’angelo,
lo osservava scolpito sopra l’abside.
L’abate
era in fondo alla navata, i loro sguardi si incrociarono e il viso severo
vecchio si ammorbidi un attimo in un piccolo sorriso, si alzò e gli venne
incontro.
Il
passo era tornato saldo e il volto aveva ripreso colore rispetto al giorno
prima. Il riposo e il buon cibo avevano avuto effetto anche su di lui.
“Vi
vedo in forze,” gli disse, “Sono contento.”
“Anche
voi. Anche voi state molto meglio”
Convenevoli,
e ringraziamenti per l’aiuto dato, che si esaurirono in pochi attimi, lasciando
calare di nuovo il silenzio. Fu il monaco a romperlo, prima che si prolungasse
troppo.
“Cosa
farete adesso?”
Hovhannes
si accarezzò la barba, un’idea ce la aveva.
“Tornerò
indietro, con un po’ fortuna conto di unirmi a qualche unità di soldati del Temarca,
o un gruppo di locali, e di fare in tempo a uccidere un po’ di infedeli, prima
che tornino a sud.”
“Giusto,”
fece l’altro. “Siete un soldato, come dicevate.”
Hovhannes
annuì.
“È
il mio mestiere. Fare la guerra è il mio mestiere. Da una vita.” Guardo il
monaco di fronte a lui e poi continuò “Nella mia famiglia abbiamo sempre
combattuto. Sa, un mio antenato combatté e morì ad Avarayr
accanto a Vartan Maminokian per difendere la fede e l’Armenia, contro i seguaci
di Zoroastro.”
Lo
disse a voce alta, era il più grande orgoglio della sua famiglia, quello di
aver sempre difeso il proprio paese. Glorie passate, ma mai dimenticate.
L’Abate
assentì, e sorrise per la seconda volta, questa volta con più calore.
“Sì,”
disse, “vostro padre me lo raccontò”.
“Lo
avete conosciuto?” Non poté nascondere la meraviglia.
“Certo,
anche se era già anziano quando lo conobbi, si vedeva che era stato un gran
uomo. Un uomo forte e pio.”
“Lo
era.” Sancì Hovhannes.
Il
silenzio ricalò di nuovo per un attimo su quella conversazione sofferta, ma
l’Abate lo ruppe di nuovo.
“E
una volta che gli infedeli se ne saranno andati e li avrete ricacciati dalle
nostre terre, cosa farete?”
Era così
trasparente dunque? Per un attimo, fu tentato di girare sui tacchi, ma si
trattenne per rispetto al luogo, ma soprattutto per quello che vedeva nel viso
del monaco di fronte a lui. Negli occhi, acquosi per l’età, leggeva un sincero
interesse e una simpatia che non aveva ancora incontrato in nessuno da quando
era tornato.
“Non
lo so.” Ammise. “Proprio non lo so.” E poi di impulso. “Che dovrei fare secondo
voi? Cosa dice un sant’uomo con la saggezza dei vostri anni?”
Non
ci furono esitazioni nella risposta. “Non sono particolarmente più saggio di
tanti altri, figliolo, e non posso decidere per voi, o capire cosa sia giusto.
Una sola cosa posso fare, per ringraziarvi, provare a darvi il conforto della
fede e aiutarvi ad aprire il cuore a Nostro Signore. Lui potrà aiutarvi a
capire cosa è meglio.” Gli prese una mano. “Volete che vi confessi, Hovhannes
figlio di Bagrat? Questa non è una delle splendide chiese rivestito d’oro e
pietre preziose che avete visitato, ma è sempre un luogo di Dio.”
Si
guardarono fissi per un lungo istante. “Sì, per favore. Sono in peccato mortale
per aver ucciso quel ragazzo giorni fa e ne soffro.”
Lo
condusse a sedersi all’Analogion, vicino all’altare, di fronte al velo che
sostituiva l’Iconostasi a cui era abituato.
Si
liberò l’anima dei suoi peccati: l’aver ucciso quel giovane ancora imberbe, la
lussuria che aveva provato una sera in osteria, la gola a cui si concedeva
troppo spesso, l’ira che lo minacciava ad ogni passo e soprattutto la superbia
che non lo abbandonava mai. Infine, confessò i suoi desideri, la nostalgia per
un passato ormai lontano, la paura di essere ormai straniero in qualunque
terra, i timori che la sua stessa famiglia non lo rivolesse.
Disse
tutto, accettò la benedizione e l’assoluzione e recitarono insieme antiche
preghiere nella lingua che aveva usato da ragazzo.
Quando
ebbero finito, Hovhannes l’Armeno alzò gli occhi verso la croce d’oro poggiata
sull’altare e più in su fino al viso del Cristo scolpito nell’arco che li
sovrastava e, dopo tanti anni, si sentì finalmente a casa.
Note:
1- Tema, Temarca: Il nome Tema (o Thema) indicava le provincie dell’Impero Romano d’Oriente (o Bizantino), dopo il VII secolo. Il Temarca era il governatore della Tema, che riuniva sotto di sé sia l’autorità civile che quella militare, di solito di nomina imperiale ma che a volte poteva essere praticamente ereditario.
2- Bādh ibn Dustak. Capo tribale e fondatore della dinastia curda dei Marwanidi. La leggenda racconta che da ragazzo era un semplice pastore. Approfittando della ribellione del generale Bizantino Bardas Skleros compì alcune vittoriose incursioni in territorio cristiano, conquistando alcune città di confine.
3- Basileus dei Romani: Gli imperatori d’Oriente dopo il VI / VII secolo iniziarono a utilizzare il titolo greco di Basileus ton Romaion (Imperatore dei Romani). Il termine Impero Bizantino che viene comunemente usato è una convenzione storica creata in tempi recenti, quelli che noi chiamiamo bizantini continuarono a definirsi fino alla fine dell’Impero (e anche successivamente) come “Romani” (Romaioi).
4- Diofisita: La chiesa Armene rifiutava, e rifiuta tuttora, le conclusioni del concilio di Calcedonia che definiva la doppia natura del Cristo che è la base della cristologia Ortodossa e Cattolica. Di solito in senso dispregiativo i fedeli delle chiese che rifiutavano tali conclusioni (la chiesa armena, quella siriana e i copti egiziani) venivano definiti Monofisiti (coloro che credono in una sola natura), e loro cortesemente ricambiavano il disprezzo chiamando tutti coloro che accettavano le prescrizioni del concilio Diofisiti (coloro che credono in DUE nature). Le dispute teologiche dell’antichità sono deliziosamente piene di giochi di parole, raffinati, ma non meno offensivi . Durante tutto il medioevo ciò provoco tensione tra i Romani ortodossi e calcedoniani e i loro sudditi armeni monofisiti. Vista l’importanza militare di quelle regioni e le capacità belliche degli armeni, che erano molto numerosi nell’esercito, raggiungendo spesso il vertice dei comandi, l’uso era tollerare e non chiedere spiegazioni, finché i militari armeni non facevano proselitismo e si tenevano la loro fede nel privato nessuno andava ad indagare. Una versione medievale del “Don’t ask, don’t tell” in uso, fino a qualche anno fa, nell’esercito americano rigiuardo gli omosessuali.
5- A differenza del cattolicesimo occidentale che ha usato esclusivamente il latino fino al concilio Vaticano II, nel cristianesimo orientale si preferiva usare le lingue locali: il Greco in territorio imperiale, l’Armeno in Armenia, il Copto in Egitto, il Siriaco in Siria, lo Slavonico nei Balcani.
6- Il monastero non ha una locazione precisa e non è reale, ma la sua descrizione è basata sull’architettura dei monasteri medievali armeni, specialmente quello di Tetav e di Geghard. Posti assolutamente da scoprire e ammirare se non fisicamente almeno usando il web.
7- Avarayr, Vartan Maminokian, Zoroastro. L’Armenia ha l’orgoglio si essere stata la prima nazione ad accettare il cristianesimo come religione ufficiale (nel 301, 12 anni prima di Costantino il Grande). Purtroppo, aveva la sfortuna di essere al confine e terreno di scontro tra le due grandi superpotenze del mondo antico i Romani e i Persiani. Nel 450 i Persiani tentarono di sottrarre l’Armenia all’influenza dei Romani (ormai Cristiani) sostenendo un loro pretendente che proveniva dall’ancora larga minoranza pagana/zoroastriana. Il condottiero armeno e cristiano Vartan Maminokian affrontò l’esercito invasore nella piana di Avarayr (la leggenda ovviamente racconta di una disperata inferiorità numerica tra gli armeni e i pagani invasori). Si fece massacrare morendo come un martire con quasi tutto l’esercito, ma il suo sacrificio riuscì a fermare l’invasione salvando il cristianesimo in Armenia. Ovviamente per la chiesa Armena è un Santo a cui sono dedicate molte chiese.
8- Analogion: Indica un leggio accanto all’altare, su cui si collocano i Vangeli o una Icona vicino a cui si usa inginocchiarsi per essere confessati
9- Iconostasi: Nelle chiese Ortodosse di solito l’altare è nascosto alla vista dei fedeli da una parete o un paravento in legno, decorato, come dice il nome, da icone che rappresentano Gesù, la Madonna o i santi. Nelle chiese Armene invece di solito si usa un semplice velo.
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