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Marcus et Philinna (titolo provvisorio e ancora incompleta)


Ricordo perfettamente il giorno in cui tornai Roma.
Era giugno, il quarto giorno dopo le idi di giugno, nel terzo anno di Claudio Cesare, l’anno del consolato di Decimo Valerio Asiatico e Marco Giunio Silano.
Era una splendida giornata di sole, non una nuvola oscurava l’azzurro del cielo.
Era ancora mattina quando entrai in città da Porta Fontinale, non avevo neppure bisogno di guidare Nembo, il mio cavallo. Sentiva anche lui l’odore di casa e prendeva la strada giusta senza bisogno di nessuna indicazione da parte mia.
Era una giornata perfetta, pure la città sembrava puzzare meno di quello che ricordavo. Finalmente ero a casa ed era stupendo, due anni e passa al confine del mondo non erano stati facili da affrontare, ma adesso erano finiti ed ero felice, anche più di quanto fossi stanco e impolverato.
Mia madre, avvisata dà qualche schiavo che aveva lasciato di vedetta, era lì nel vestibolo ad aspettarmi, quando le porte si aprirono, florida, sorridente e orgogliosa, vestita con l’eleganza a lei tipica.
“Figlio mio, amato. Orgoglio e speranza della nostra famiglia e del nostro nome” Così mi accolse. “Bentornato nella tua casa.” Mi abbraccio e mi baciò le guance.
Dietro di lei c’era mio zio Aulo. Lui era tutt’altro che elegante con le sue pretese di stoica modestia, ma anche lui sorrideva felice quando mi abbracciò.
“Marco, un uomo possente sei diventato!” Disse.
Non vi erano altri parenti. Mio padre e il mio fratello maggiore erano morti anni prima. Il resto della piccola folla che mi accolse erano servitori: Eryx il sopraintendente della casa, Cleone il mio vecchio tutore e segretario di famiglia, che si inchinò sorridente, Romolo il grosso robusto schiavo che era stato il primo a insegnarmi come usare una spada quando era ragazzo, non disse nulla, si limitò a inchinarsi, ma riconobbi l’orgoglio nei suoi occhi.
Tanti altri si erano radunati per salutarmi. Mi ricordo le due cameriere personali di mia madre, che mi conoscevano sin da bambino, la mia vecchia balia, l’unica che si permise di piangere quando la abbracciai. Nel retro, seminascosta tra gli altri schiavi riconobbi Sabra, la concubina siriana di Zio Aulo, che mi sorrideva e, non mancai di notarlo, portava ciondolo che le avevo regalato prima di partire.
Al termine dei saluti, uno schiavo mi prese il mantello, mentre altri presero in consegna Nembo e mia madre mi guidò dall’altro lato dell’atrio, all’altare dei Lari e dei Penati e qui gli offrii vino, pane e incenso, per ringraziarli di avermi riportato a casa sano e salvo e per chiedergli salute e fortuna per il mio futuro.
Sentii i piccoli Dei sorridermi e darmi il benvenuto. Finalmente, io, Marco Valerio Corvino, ero tornato a casa.

Reso grazie agli Dei, il secondo passo necessario dopo un simile viaggio è quello di lavarsi e fu quello che feci. Dopo la prima strigliata venni raggiungo nella vasca da mio zio, pieno di curiosità dei miei viaggi.
“Allora come questa Britannia?” Mi chiese.
“Un posto strano e selvaggio, ma con un suo certo fascino devo dire. La gente però è veramente barbara e incivile, ti assicuro.”
“Pure le donne?” Come dicevo, zio ha la pretesa di essere uno stoico, e a volte, bisogna ammettere, riesce ad essere una convincente imitazione di Zenone di Cizio, ma non per quanto riguarda le donne, in quell’ambito nemmeno prova a fingere.
“Particolari,” dissi, mi interruppi sorseggiando un po’ di vino dalla coppa, divertito dalla sua espressione impaziente, prima che mi facesse fretta, ripresi, “esattamente come la loro terra e i loro uomini sono decisamente selvagge e ben poco raffinate. Possono essere interessanti comunque: pelle pallida, occhi chiari, capelli neri o a volte rossi. Intriganti.” Tornai a bere un altro sorso.
“Ha portato indietro un souvenir?”
Risi.
“No zio, mi dispiace, ma se sei curioso i mercati sono ancora pieni di schiavi britannici. Non è un problema procurarsene qualcuno.”
No, no caro nipote.” Mi replicò. “Sabra è più che sufficiente per soddisfare i desideri che mi possono rimanere alla mia età. Parlavo per te che sei giovane e nel pieno del vigore.”
Il messaggio era chiaro. Zio era stato generoso e paterno a darmi la disponibilità di Sabra quando da ragazzo avevo avuto bisogno di una guida gentile e discreta per educarmi e diventare un uomo, ma era stato subito chiaro che “prestare” occasionalmente non significava “condividere” e adesso voleva rimarcare il punto. Come condannarlo, zio era la persona più generosa e cordiale che io abbia mai conosciuto: le donne erano il suo unico, perdonabilissimo, vizio e raggiunta la sua età Sabra era l’unica di cui avesse ancora bisogno.
Feci un cenno per farmi riempire di nuovo la coppa da uno degli schiavi.
Annuii come a dare il segnale che avevo capito e zio cambiò discorso.
“Allora dimmi altro. Il mio vecchio amico Flavio Vespasiano ti ha trattato bene?”
“Certo zio!” Su questo non vi erano certo dubbi.” Mi ha trattato come se fossi un suo parente. Ti devo ringraziare per la tua lettera di presentazione. Mi ha preso con lui ed è stato un vero maestro. Mi ha insegnato tantissimo su come si guidano gli uomini in battaglia e di come va governata una provincia. Quando c’è stata l’occasione ha fatto in modo che fossi nel seguito dell’Imperatore, per darmi l’occasione di farmi notare.”
“Ottimo! Ottimo, quindi hai avuto modi di farti conoscere dall’Imperatore.”
“Si Zio, sono stato al suo seguito sia sul campo, che in situazioni più rilassate.”
“E dimmi… Com’è?” la sua voce si abbassò a un sussurro, malgrado fossimo solo noi due e in casa nostra. 
Lo imitai nel rispondergli. 
“Claudio Cesare, l’Imperatore, è un uomo molto particolare. Ha una mente sveglia e intelligente e la sua conversazione è colta e interessante, anche se è vero che balbetta a volte. Non è un guerriero, forse, ma conosce l’arte della guerra e sa come condurla e vincerla. Perfino un veterano glorioso come il tuo amico Vespasiano glielo riconosce sinceramente.”
“Bene, bene.” Ripeté. “L’importante è che l’imperatore ti abbia conosciuto e ti abbia notato.”
“Ho fatto del mio meglio zio, ma l’Imperatore è stato laggiù solo pochi mesi e sono anni che è tornato a Roma.”
“Oh, troveremo una maniera per rinfrescargli la memoria, sono sicuro che la tua buona madre si sta già muovendo da quando ha saputo del tuo ritorno. Nessuno è più capace di mia sorella in queste cose. Posso presumere che tu non sia al corrente delle ultime notizie della città?”
Si fece riempire di nuovo la coppa anche lui e passò la successiva ora ad aggiornarmi sugli ultimi avvenimenti della politica e della poesia. Il sale della vita.
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I miei primi giorni a casa, al contrario di quello che avevo sperato, furono tutt’altro che riposanti o rilassanti, ma la mia era stata solo un infantile illusione in effetti.
Il mio ritorno a Roma provocò un immediato afflusso di visitatori e clienti che volevano salutarmi e rendermi omaggio. Durante la mia assenza, questi compiti erano stati svolti da mia madre con l’aiuto di Zio Aulo, ma adesso con il mio ritorno le cose dovevano essere fatte nella maniera adeguata, ero il Pater Familias l’erede dei Cloro e il compito era mio.   
Si iniziava la mattina presto con Eryx e Cleone che accoglievano i visitatori e li ordinavano per rango e precedenza perché potessi riceverli.
Il mio posto era quello che aveva occupato mio padre prima di me, e suo padre e tutti i miei antenati in precedenza, nell’atrio seduto vicino all’altare domestico. Lì accoglievo questa continuo flusso di visitatori, tutti vestiti con le loro migliore toghe, ascoltando i loro saluti e i loro auguri e, fin troppo spesso, le loro richieste. A tutti veniva offerto qualcosa, fosse da mangiare, da bere o un regalo per testimoniare la nostra amicizia, non era accettabile qualcuno se ne andasse a mani vuote.
E se questo non bastasse c’erano cene, visite ad altre famiglie amiche o meno amiche e qualche piacevole incontro con i miei vecchi compagni.
Fu così con grande gioia che alla fine riuscii a ritagliarmi un pomeriggio per me, per godere di un po’ di tranquillità e pace e mi chiusi nel mio piccolo studio per leggere e scrivere.
Il piccolo studio è la mia stanza favorita da quando ero un ragazzino: è al piano superiore e si affaccia sul peristilio e pur essendo piccola è confortevole e piena di luce per la maggior parte del giorno. L’arredamento è semplice e pratico: un tavolino, delle sedie confortevoli, uno scaffale per i rotoli in lettura, un lettino dove ogni tanto spendevo la notte quando mi addormentavo leggendo.
Passai delle ore gradevoli scrivendo lettere ai miei compagni rimasti in Britannia, e soprattutto a Flavio Vespasiano che mi aveva così favorito, per informarlo che ero arrivato sano e salvo a Roma, che il mio viaggio era stato veloce e confortevole e ringraziarlo, ancora una volta, per la sua gentilezza e amicizia.
Stanco di scrivere, presi dallo scaffale un rotolo di Catullo, che giaceva lì da prima della mia partenza, almeno, e scorsi pigramente i suoi versi godendo della loro musica. In quella maniera arrivai alla fine del pomeriggio e quando il sole iniziò a scendere e le ombre ad allungarsi sentii uno schiavo entrare nella stanza.
“Scusate padrone, sono venuta a riempire le lampade” Disse una voce giovane e femminile.
Feci un gesto di consenso senza neppure sollevare la testa dalla mia lettura, ma mi interruppi quando accese la prima lampada ad olio e la luce tremolò sulla pagina.
Era una giovane schiava che mi dava le spalle sistemando le lampade, non la riconobbi dopo tanta assenza, ma non potei fare a meno di notare la sua piacevole figura.
Aveva dei lunghi capelli neri, lievemente mossi, raccolti in una coda di cavallo. Il che la indentificava come una fanciulla non sposata, o, essendo una schiava, almeno senza un compagno ufficioso. Era di media statura, dal fisico delicato, ma la semplice tunica non poteva nascondere, la vita stretta, i bei fianchi e le gambe slanciate. Lo scialle che indossava sopra la tunica era scivolato mostrando una spalla morbida e ben modellato ed esaltando il collo lungo e snello. Non aveva certo la pelle chiara e perfetta di una nobildonna, ma sembrava comunque soffice e liscia senza difetti. Da quella posizione vedevo solo il profilo del suo viso, una guancia delicata e delle ciglia apparentemente lunghissime.
Non so se quel pomeriggio avessi letto troppi versi di Catullo dedicati alla bellezza di Lesbia, o forse era semplicemente venuto il momento che chiedessi a Zio Aulo di prestarmi per una notte Sabra, o trovassi un altro sfogo, ma rimasi incantato dal suo profilo e dai suoi movimenti precisi e delicati.
Si voltò finito il suo lavoro e accorgendosi che la stavo fissando, in una maniera, mi rendo conto, quasi sgarbata, si bloccò evitando di incrociare i miei occhi, sistemò lo scialle coprendosi pudicamente la spalla e abbassò lo sguardo con un gesto così schivo e modesto che avrebbe riscosso l’approvazione anche di Catone di Giovane.
La osservai meglio, le sue ciglia erano veramente folte e lunghe e incorniciavano dei grandi occhi luminosi di un bel color nocciola, le labbra erano ben modellate e pure il naso era di piacevole conformazione. Il viso era di una forma regolare ed elegante, piacevole da contemplare. Mi era stranamente familiare, percui probabilmente non era un nuovo acquisto successivo alla mia partenza, ma non riuscivo a collocarla.
Impiegai un lungo secondo, di impacciato silenzio, prima di riuscire, finalmente, a riconoscerla.
“Filinna!” Esclamai meravigliato, per un attimo fui tentato di aggiungere la banale affermazione di quanto fosse cresciuta (e in nome di Venere Citera era cresciuta assai bene), ma cosciente di quanto avevo odiato essere oggetto di affermazioni simili mi trattenni.
Lei finalmente sorrise, un sorriso ampio e luminoso da illuminare l’intero viso e la stanza, più delle lampade che aveva accesso.
“Padrone, sono contenta che voi siate tornato finalmente a casa sano e salvo.”
Filinna era la figlia di Cleone. Era alcuni anni più giovane di me e quando ero ragazzo faceva abitualmente parte del gruppo di bambini con cui giocavo. Mi ricordo che per un periodo (avrò avuto 11 o 12 anni) si era molto affezionata a me e aveva iniziato a seguirmi dà per tutto con la fedeltà e l’insistenza di un cagnolino, fino a che suo padre non l’aveva rimproverata temendo mi infastidisse. Io a quel tempo mi consideravo il giovane padrone e l’indiscusso capo di tutti i monelli della casa (schiavi o liberi che fossero) e l’avevo apertamente difesa come nella mia mente doveva fare un buon capo. Mi ero meritato la sua totale ammirazione, le prese in giro di mio fratello Gaio e un rimprovero di mia madre.
Quando era partito era ancora una ragazzina ossuta, con un viso forse grazioso ma ancora infantile, per cui non c’era da meravigliarsi se non l’avevo riconosciuta ora che era diventata una giovane donna assai ben fatta.
Per pura cortesia aggiunsi:
“Spero che anche tu stia bene, non ti avevo visto al mio arrivo.”
“Ero in cucina ad aiutare per la vostra cena di benvenuto, padrone e non potei venire ad accogliervi.” Annuii, poi all’improvviso sembrò ricordarsi di dove si trovava e del giusto ordine delle cose e quasi sussultò: “Scusatemi, padrone, non volevo farvi perdere tempo, torno al mio lavoro.”
“Non te ne preoccupare, stavo solo ingannando il tempo scorrendo dei versi di Catullo.”  
Stava per uscire, ma a queste parole ebbe un attimo di esitazione e lessi l’interesse nei suoi occhi. Mi ricordavo bene di lei.
“Lo hai mai letto Catullo?” Le chiesi
Il padre di Filinna era stato il mio tutore ed era tutt’ora il nostro segretario. Era uno schiavo greco, originario di Chio, un uomo di grande cultura e di idee alquanto particolari, che aveva preso l’insolita decisione di insegnare la sua arte e le sue conoscenze non solo a suo figlio, per farne il suo successore, ma anche a sua figlia.
Filinna era l’unica schiava che conoscessi ad essere letterata sia in greco che latino e il padre le aveva dato una vasta conoscenza degli autori e dei testi. A quanto pare malgrado aiutasse in cucina e avesse il compito di riempire le lampade ad olio, non aveva perso questa passione.
“No, Padrone.” Rispose, con un filo di rincrescimento. “Mio padre non me lo ha fatto leggere.”
Mi venne da sorridere al tono di rammarico della sua riposta.
“Beh, immagino che il buon Cleone non lo abbia trovato appropriato come lettura per una fanciulla.”
“Ma lo è per davvero, Padrone?” Gli occhi erano sempre bassi e l’atteggiamento controllato, ma nella voce si era insinuata più che la curiosità.
“Difficile per me giudicare e non vorrei farlo, ma di certo i suoi versi sono notevoli.”
Impossibile non scorgere l’interesse e il desiderio nei suoi occhi e io fui troppo stupido e vano per trattenermi.
“Ci sono due rotoli con i suoi lavori nello scaffale, quando hai del tempo libero, se vuoi puoi leggerli.” 
Mi fisso per un istante, uno solo prima di riabbassare lo sguardo, uno sguardo a cavallo tra la meraviglia e il timore. “Non la vostra libreria… non posso toccare i vostri rotoli.”
“Beh. se io dico che ora puoi, immagino che significhi che ora puoi, non è forse questo il senso delle parole? Poi se sei veramente figlia di tuo padre e mi ricordo bene di quanto eri coscienziosa, i miei volumi sono più al sicuro nelle tue mani che nelle mie.” 
Non sollevò altre obiezioni, rimase alcuni istanti in silenzio prima di rendersi nuovamente conto di cosa stesse facendo.
“Devo continuare il mio giro, Padrone. Vi ringrazio per la vostra gentilezza, ma dove andare.
Annui, concedendoglielo: “Fai pure il tuo dovere, ma ricorda che la mia offerta rimane.” 
Con un lieve inchino del capo si accomiatò e si girò per lasciare la stanza, ma proprio in quell’istante, una coincidenza da pessima messa in scena di una pessima commedia, sulla porta si presentò mio zio, che si scostò lievemente per permetterle di circumnavigare la sua ormai vasta rotondità e uscire
“Caro nipote, ti ho portato un regalo.” Disse mostrandomi un piccolo rotolo. Annuii sorridendo, ancora distratto dalla precedente visita e lui lo notò immediatamente. “Graziosa creatura, vero?”
“Filinna?” Feci recuperando il contegno. “Indubbiamente, molto cambiata rispetto a quando partii.”
“Verissimo” Ridacchio mio zio. “Incredibile come da un uomo sgraziato come Cleone possa fiorire una simile figliola. Pure la madre non è molto meglio del padre, poi.” Mi fece l’occhiolino. “Un mistero.” 
“Povero Cleone, non lo canzonare, ma si di certo, concordo: un mistero, o forse un miracolo, chi può dirlo?
“Lo sai che quella ragazza sa leggere e scrivere?”
“Zio, conosco anch’io Cleone e la sua famiglia certo che lo so, stavamo giusto parlando delle poesie di Catullo.”
“Catullo? Ah, ragazzo mio! Tu, corruttore di giovani vergini!” Mi prese in giro. “Beh, alla tua età ci mancherebbe non provassi a corromperle… ma, ragazzo mio, dai retta a me, concentrati su aspetti più. fisici… è alquanto più soddisfacente.”
“Zio, sei terribile, veramente terribile! Cosa è quel rotolo?” Non mi sembrava conosciuto.
“Giunio Liciniano” disse, quasi a malavoglia.
“Chi?” Nome assolutamente ignoto.
“Poesie, l’ultima moda in città di questi giorni!”
“Ah! Grazie!” Feci, prendendo il rotolo. “Belle?”
“Assolutamente no! Se gli Dei sono pietosi sarà dimenticato presto. Ma comunque devi leggerle se non vuoi fare scena muta a tutte le cene che tua madre sta organizzando.”


Nei giorni seguenti, preso dai gli impegni e soprattutto da una delle grandi cene organizzata da mia madre a cui partecipò metà Senato e una buona parte della famiglia imperiale, non ebbi certo modo o interesse di ripensare all’incontro con Filinna, ma una sera avevo cercato un attimo riparo e solitudine nello studio e mi accorsi che il rotolo di Catullo era stato spostato.
Allora aveva accettato il mio invito veramente! Che cosa buffa una schiava che leggeva Catullo.
Senza nemmeno riflettere le lasciai un biglietto tra i due rotoli.
“il mio favorito è il Carme CIX”
«Iucundum, mea vita, mihi proponis amorem
hunc nostrum inter nos perpetuumque fore.
Di magni, facite ut vere promittere possit,
atque id sincere dicat et ex animo,
ut liceat nobis tota perducere vita
aeternum hoc sanctae foedus amicitiae.»


«Eterno, anima mia, senza ombre
mi prometti questo nostro amore.
Mio dio, fa' che prometta il vero
e lo dica sinceramente, col cuore.
Potesse durare tutta la vita
questo eterno giuramento d'amore.»

“A te quale è piaciuto?”

Per alcuni giorni niente si mosse sullo scaffale, il biglietto rimase non letto.
Poi una sera trovai che una frase era stata aggiunta alla fine, con una scrittura minuta e precisa, elegante, esattamente come l’avrebbe apprezzata Cleone:
“Il mio favorito è il Carme LXXXV”

«Odi et amo. Quare id faciam, fortasse requiris.
Nescio, sed fieri sentio et excrucior.»

«Odio ed amo. Perché lo faccia, mi chiedi forse.
Non lo so, ma sento che succede e mi struggo»

Cosa mai mi potevo aspettare da una ragazza?


Alcune sere dopo, mia madre convinse Zio Aulo a concedermi per una notte la sua preziosa Sabra. Non trovava sano che un giovane come me accumulasse energie sessuali troppo a lungo, persino uno stoico come zio non poteva che essere d’accordo e non voleva che andassi a cercare conforto in uno degli innumerevoli bordelli della città. Anche i migliori e più elegantemente frequentati erano posti che trovava disprezzabili e poco sicuri.
Sabra aveva due o tre anni più di me ed era stata appositamente acquistata da mia madre come regalo per zio. Mi ricordo ancora il suo arrivo in casa: parlava, allora, pochissime parole di latino, in pratica sapeva solo ripetere a memoria un rozzo adagio insegnatole dal suo venditore: “Io sono la gioia per gli uomini”.
Io ero ancora un ragazzo che era appena entrato in quell’età dove si inizia misteriosamente a sentire una incomprensibile nuovo tipo di attrazione verso le donne e quella semplice frase pronunciata con un accento straniero ed esotico, aveva turbato per parecchio tempo i miei sogni.
Sabra occupava un ruolo molto particolare nella nostra casa. Era totalmente incapace nella maggior parte dei lavori: non sapeva praticamente filare o tessere, a malapena era in grado di cucire o fare qualcosa di utile in cucina, nel lavare i panni o fare i servizi della casa era lenta e decisamente svogliata. Le sue doti consistevano sostanzialmente di saper servire a tavola con eleganza, di avere una bella voce e di saper suonare la lira e la pandura. Era una esperta massaggiatrice e dopo un bagno da sotto le sue mani si usciva rinati. Inoltre, conosceva centinaia di erbe, impiastri e pozioni utili per curare acciacchi e malattie.
La sua arte vera però consisteva nel sapersi prendere stupendamente cura di sé stessa e degli uomini che gli venivano affidati.
Mi sorrise entrando nella mia camera quella sera, i suoi grandi occhi neri brillavano di allegria e il suo saluto mischiato ad una risata scosse la sua ricca criniera di riccioli scuri, era, stata la prima donna che avevo avuto, e, in qualche modo, questo suo primato, la rendeva particolarmente affezionata a me.
Fece un solo passo verso di me, poi fece scivolare le spalline della sua tunica, che scese fino a rimanere un attimo trattenuta dai suoi seni e lei con un movimento esperto, uno scuotimento sensuale dei fianchi, la finì di far cadere a terra senza usare le mani rimanendo splendidamente nuda.
La pelle di Sabra è leggermente più scura della mia, i fianchi larghi e i seni splendidi e pieni con dei capezzoli scuri. Zio si era lamentato che ultimamente mangiava troppo e iniziava ad ingrassare, ma onestamente quello che vedevo mi sembrava stupendo e allettante. Non era solo il corpo, ma i movimenti, i modi e anche gli sguardi a renderla eccezionale: poche donne, che ho conosciuto, sono in grado di essere sensuali come Sabra, e lei lo sapeva bene ed era orgogliosa delle sue doti.
Con un passo usci dalla tunica che si era afflosciata ai suoi piedi, un movimento sciolto e sinuoso, che doveva essere simile a quello con cui Venere appena nata era uscita dalla spuma del mare, fece un altro passo verso di me e mi sorrise quando i nostri occhi si incrociarono. Basto questo a far reagire il mio corpo, ero giovane, molto giovane e lei, vedendolo, rise di nuovo, risata profonda, provocante e felice.
“Oh Padron Marco, anch’io sono molto contenta di vedervi, sapete? Lasciate che ve lo mostri!”
Col senno del poi non ci potevano essere dubbi che eravamo entrambi piuttosto contenti di essere di nuovo insieme e dato che peccai di mancanza di autocontrollo credo che molti, o quanto meno quelli più vicino alla mia stanza, se ne accorsero. Quando alla fine prendemmo una pausa, eravamo sudati ed ansimanti e mi alzai per prendere un po’ di vino per me e per lei, prima di ridistendermi. Sabra mi abbraccio e chiuse gli occhi soddisfatta e sonnolenta. 
Rimanemmo così pisolando leggermente, quando il fresco della notte sveglio entrambi e presi una delle coperte che era scivolata sul pavimento per coprirci. Di nuovo sveglia Sabra riprese ad accarezzarmi e le sue intenzioni sembravano chiare, fino a che la sua mano incontrò la nuova cicatrice che avevo sul fianco e si fermò lì. 
“Cosa avete fatto, Padrone, cosa vi è successo?” Chiese e dopo tanti anni a Roma la sua voce aveva ancora una cadenza speziata di terre lontane ed esotiche.
Possedere una donna rende felice ogni uomo, ma poterle raccontare, e vantarsi, delle sue avventure, dei suoi atti di coraggio e delle sue battaglie a volte è un piacere altrettanto grande. 
Sabra, penso, lo sapesse perfettamente, nella sua esperienza, e quando colsi il suo amo e nella mia presunzione giovanile le decantai di come ero stato ferito, della battaglia (poco più di uno scontro di pattuglie in realtà) in cui era accaduto e di come avessi ucciso innumerevoli barbari britanni, si fermò ad ascoltarmi, apparentemente rapita ed affascinata. Mi crogiolai del suo interesse e del suo atteggiamento, pur cosciente di quanto gli schiavi siano abili a lusingare il padrone in qualsiasi occasione.
Quando finalmente tacqui, mi guadagnai un bacio e poi si rimise comoda 
“Voi però mi state tenendo un segreto, Padrone.”
“Segreti? E quali segreti dovrei mai tenere con te, mia cara Sabra?” Risposi, prima di capire che stava scherzando.
“Ma io lo sento che avete un segreto dentro di voi, Padrone, lo sento.”
Risi, stando al gioco, curioso di sapere dove voleva arrivare. “O Sabra, so che sei brava con le pozioni e le misture ma non sapevo di aver dentro la mia casa anche una vegente!”
Si mosse cercando una posizione più confortevole per la testa nell’incavo della mia spalla.
“Ma Padrone, noi donne siriane siamo tutte un po’ streghe, non lo sanno forse tutti?” Il suo tono si fece improvvisamente serio. “Io sono stata la vostra prima donna e la Grande Madre Astarte mi ha concesso il potere di vedere i vostri desideri!”
“Ah!” ribattei con tono meravigliato. “E quindi tu riesci a vedere i segreti più nascosti del mio cuore?”
“O no, non del vostro cuore.” Rispose sempre serissima. “Ma dei desideri che avete un po’ più in basso.”
La mano scattò in giù afferrandomi i genitali e facendomi sobbalzare per la sorpresa. Entrambi scoppiamo a ridere e ci fu una giocosa lotta, fino a che, senza troppo sforzo, riuscii a bloccarla sotto di me immobilizzandole le braccia.
“E allora, rispondi al tuo Padrone, ragazza e racconta quello che vedi, te lo ordino.” Le dissi, facendo il minaccioso.
“Voi desiderata, una giovane fanciulla, Padrone!”
Inarcai le sopracciglia con aria delusa: “Ma questo non è certo una cosa sorprendente, o un gran segreto, alla mi età, Sabra!” 
“Ma io vedo, le grandi fiamme di un fuoco caldissimo.” Mi replicò, senza riuscire a trattenere una risata. “È una fiamma rovente quella che vi arde nel vostro giovane petto, padrone, e la fanciulla rischia di bruciare ed essere ridotta in cenere, soffrirà e la farete soffrire.”  
Le lascia liberi polsi, ridendo. No, Astarte non le aveva certo dato il dono di leggere i miei desideri, piuttosto le aveva concesso quello assai più tremendo della profezia e di non essere creduta. E io non la capii, forse nemmeno la ascoltai.
“Ah, che lingua mielata che hai Sabra, anche se a volte la usi fin troppo!”
“Lo dice che anche Padron Aulo.” Abbassò il tono della voce ad imitare mio zio: “Ragazza mia tu parli troppo. Che vantaggio ho a questo punto a tenerti? Se devo stare a sentire tutte queste chiacchere, vale la pena che mi prenda una moglie!”
Non potei trattenermi dallo scoppiare di nuovo a ridere, era davvero una perfetta imitazione. Poi atteggiai il viso a una finta severità: “Non dovresti prendere in giro il tuo padrone in questa maniera! Ragazza!”
Ancora bloccata sotto di me Sabra stette al gioco simulando tragico spavento: “O no! Giovane padrone! Non glielo dite vi prego! Non mi fare punire, sono stata cattiva lo so, ma voi mantenete il silenzio!” Sorrise maliziosa. “Mantenete il silenzio e io vi farò vedere come mi faccio perdonare da vostro zio quando parlo troppo!”
“Ah Sai come farti perdonare da Zio Aulo? E come mai lo convinci?”
Sabra mi guardò, a malapena trattenendo le risate, dopo una pausa adeguatamente drammatica rispose:
“Uso la lingua in altra maniera, Giovane Padrone.” Sbatté le ciglia in maniera esagerata. “Volete ve lo faccia vedere?”
La lasciai andare, direi che sembrava in grado di guadagnarsi la mia complicità.


Nei giorni successivi mi adeguai alla routine della città: il ricevimento dei clienti la mattina, gli incontri al foro o alle terme nel pomeriggio, ricontrollare i conti e i documenti preparati dai nostri amministratori la sera, cene e feste, una vita priva di soprese, ma di certo assai occupata.
In tutto questo mi capitò poco di pensare alla figlia di Cleone, ma poco non significa nulla. Scambiai con lei un altro paio di biglietti nello scaffale dei rotoli, biglietti il cui contenuto dimostrava, devo dire, la sua intelligenza e cultura, e la incrociai più di una volta mentre lavorava per casa. In queste occasioni le facevo un cordiale cenno di saluto con la testa e lei si limitava a rispondere con filo di voce. evitando il mio sguardo e solitamente facendo il suo meglio per lasciare la mia presenza appena possibile senza essere offensiva. Non mi evitava, ma sembrava decisamente imbarazzata dalla mia presenza o forse era timorosa che potessi rivelare il piccolo segreto che avevamo in comune.
Un pomeriggio invece la trovai nello studio piccolo. Non stava lavorando, era seduta sul bordo del lettino leggendo. Era così concentrata dalla lettura che non si accorse della mia presenza e io rimasi un attimo ad osservarla non visto: il viso acceso dai versi che stava scorrendo, le labbra si muovevano leggermente, ma non ne usciva suono, ero affascinato dalla sua lettura silenziosa.
Per alcuni secondi rimanemmo così, poi si accorse della mia presenza e l’incantesimo si ruppe, balzò in piedi dalla sorpresa e il rotolo le sfuggì di mano finendo sul pavimento.
Un rotolo sul pavimento era troppo per la figlia di Cleone che corse a prenderlo con aria terrificata
“Scusatemi Padrone non volevo!” Mi pregò mentre controllava freneticamente che il rotolo non si fosse rovinato.
“Non ti preoccupare, ragazza mia. La colpa è mia che ti ho spaventato.” Le risposi. Lei me lo passò come se fosse un carbone ardente che le stesse bruciando le mani delicate. Era in condizioni perfette. “Vedi.” Le dissi. “Non gli è successo nulla.” Poi lessi l’etichetta. “Saffo.”
Questo semplice nome la rigettò nel panico.
“Avevi finito i due rotoli di Catullo, Padrone e ho osato…” disse in fretta
“Calma, stai calma, ti avevo detto che potevi prenderli dalla mia libreria.”
Era pallida, gli occhi sbarrati e il respiro corto, da temere che mi svenisse lì sul posto.
“Calmati, ti dico, siediti un attimo e calmati. Se no mi svieni.”
Seguì il mio consiglio e si risedette giusto sul bordo del letto. Poggiai il rotolo della discordia sulla scrivania e riempii una coppa dall’anfora dell’acqua fresca, che probabilmente aveva portato proprio lei, e gliela passai. “Bevi, starai meglio.”
Lei ubbidì, ringraziando, ma appena finito si accorse dell’ovvio: lei era seduta e io ero in piedi e peggio l’avevo servita. Si rialzò di colpo (e per un attimo temetti si risentisse male), abbassò gli occhi e si risistemò lo scialle assumendo un atteggiamento più appropriato. Se non altro le era tornato un po’ di colore sulle guance. 
Decisi di provare a calmarla.
“Saffo è sempre una lettura appropriata. Gli Dei le donarono un’arte a cui pochi possono aspirare.”
“Vero Padrone, sono d’accordo con voi.”
“Ἔρος δ' ἐτὶναξέ μοι” recitai “Amore ha sconvolto la mia mente”
E lei continuò senza esitazioni: “φρέναϛ, ὠϛ ἄνεμοϛ κὰτ ὄρος δρύσιν ἐμπέτων. Come un vento che, dalla montagna, si abbatte sulle querce”
Finalmente mi concesse un piccolo sorriso, a cui risposi.
“Stupenda.” Dissi. “Ti senti meglio adesso?”
“Sì, Padrone, grazie.”
“I versi di Saffo sono dei gioielli. Ce ne sono tanti nelle poesie scritte da voi Greci.”
“Vero Padrone. Sono così ancora così vivi dopo tanti secoli. In latino non c’è nulla di paragonabile.
Così disse la schiava greca al suo padrone romano. Impiegò un attimo a rendersene conto. La voce le morì in gola e arrossì violentemente.
“Scusatemi Padrone! Oggi non è il mio giorno fortunato…”
Come non sorridere di fronte a tanto smarrimento?
“Beh, ragazza mia, direi che Orazio concordava con te, no? Graecia capta ferum victorem cepit. La Grecia conquistata, conquisto il selvaggio vincitore. La tua opinione ha potenti alleati!”
Annui, sollevata che non mi fossi offeso.
“Nello scaffale comunque volendo troverai altri grandi poeti greci.” Le indicai Archiloco e Menippo, per passare ad Anacreonte che, le confessai, era il mio preferito. Lei si avvicinò curiosa e commento a sua volta. Continuai con Alceo e lei aggiunse la sua di opinione alla mia, assennata ed espressa con spirito,
Continuammo così, scambiandoci allegramente opinioni sorprendentemente armoniose, sorridendo l’uno all’altra, ogni tanto citava suo padre quando la pensava diversamente da noi, e la sua conversazione era piacevole intelligente e spontanea, un piacere raro.
Non so dire quanto continuammo, ma a un certo momento, stava citando un commento di Stesicoro che aveva trovato in un altro testo, quando mi accorsi di non stare ascoltando: mi si era avvicinata parlando e sentivo il suo profumo, non una fragranza forte e travolgente come quelle usate da Sabra, ma un odore lieve di pulito e di freschezza. Una ciocca di capelli si era liberata dalla coda e adesso ondeggiava libera, mentre parlava animata, sfiorandole le ciglia e lo zigomo, incantandomi con il suo movimento, come l’esca muovendosi nella corrente incanta il pesce curioso.
Con la mano sinistra, con un movimento morbido, la scostai e la nocca del mio dito medio sfiorò il suo zigomo, la tempia liscia e il padiglione del suo orecchio delicato.
Sorpresa, smise di parlare, e si girò a guardarmi meravigliata, la bocca ancora aperta sull’ultima parola pronunciata. Vide cosa mi bruciava nello sguardo e saggiamente decise che era venuto il tempo ritirarsi.
“Scusatemi, Padrone, ma devo andare a lavorare, si sta facendo tardi!” 
Mi sfiorò, passando tra me e la scrivania e suoi capelli accarezzarono il mio viso. Chiusi un attimo gli occhi a questa sensazione, quando li riaprii era già sulla porta.
“Fermati un attimo, Filinna, per favore.”
Si blocco, immobile, senza girarsi.
“Vieni qui, per favore.”
Lentamente, in silenzio, si girò e si avvicinò, gli occhi di nuovo basse, le mani aggrappate l’una all’altra di fronte a lei. 
“Per favore siediti.” Le feci, indicando il letto, lei ubbidì, sempre senza una parola.
Dall’anfora sulla scrivania mi versai una mezza coppa di vino e presi tempo sorseggiandola, insicuro di cosa fare e insicuro persino di cosa volessi. Non ero eccitato o desideroso come avrei potuto essere alla vista di Sabra, ma nel contempo non volevo che se ne andasse.
“Vuoi del vino?” Le offrii, stupidamente.
“No, Padrone, grazie.” Cos’altro mi aspettavo potesse rispondermi? Almeno però aveva aperto bocca.
Poggiai la mia coppa svuotata sulla scrivania, la fissai di nuovo, li immobile che evitava di guardarmi, feci un respiro profondo e mi avvicinai al letto.
La feci alzare, mi sedetti io e poi la guidai a risedersi sulle mie gambe. Ubbidì ad ogni movimento, inespressiva e rigida come se fosse una bambola animata.
Non volevo questo. La ragazza sorridente e vivace con cui stavo scambiando opinioni solo pochi minuti prima era scomparsa. Adesso indossava la tipica maschera di cera priva di qualunque espressione che gli schiavi usano di fronte ai loro padroni tutte le volte che devono nascondere i loro sentimenti.
“Non è la prima volta che mi siedi sulle gambe, Filinna.” Provai a scherzare.
Rispose con voce piatta, gli occhi fissi sulla punta delle sue ginocchia, serrate.
“Eravamo bambini, padrone.”
“Ti ricordi allora? Io facevo il cavallo, e ti facevo saltare sulle gambe come se galoppassi, e tu volevi che corressi più veloce!”
“Sì, me lo ricordo padrone.”
“E mi chiamavi Marco.”
“Eravamo bambini, padrone.” Ripeté di nuovo.
“Sei diventata molto bella, Filinna, lo sai?” Le accarezzai la guancia destra, apprezzando la pelle liscia e morbida, la mano sinistra appoggiata al suo fianco. Lei piegò leggermente la testa, come per evitare la mia mano.
“Devo andare a lavorare, padrone.”
Un po’ spazientito borbottai.
“Sono davvero così brutto e spiacevole, ragazza mia?”
Tra le tante frasi stupide che potrei aver detto, questa di certo era tra le più insulse, ma stranamente fu proprio questa stimolare una reazione. Per un attimo calò la maschera e nel suo volto tornò la vita.
“Oh no, padrone, non è questo, non siete brutto! Anzi per carità.” La voce suonava sincera, come se sentisse il bisogno autentico di rassicurarmi. Fu un attimo, riabbassò gli occhi, sotto quelle ciglia così lunghe e si zittì di nuovo.
“Allora, cos’è? Sei forse impegnata con qualcuno, hai già un innamorato?” Se dice di sì, mi ripromisi, la lascio andare subito, non sarebbe giusto verso di lei. Scosse la testa e non potevo negare di sentirmi sollevato alla risposta
“Quindi non hai mai baciato nessuno, ragazza?”
Venni stupito da un chiaro momento di esitazione.
“Una volta, padrone.” Sussurrò.
Oh! La mia bella Filinna, piena di inaspettate sorprese.
“E chi era questo uomo fortunato?”
“Era il garzone del venditore di papiro, padrone.”
Annuii, “E ti piace ancora?”
La sentii agitarsi sulle mie gambe, morbida e leggera, ma caldissima.
“Non è più a Roma, il suo padrone ha avuto un eredità in Illiria è andato a vivere lì e lo ha portato con sé.”
Quando la fortuna lusinga, lo fa per tradire.” Citai.
“La sorte non può togliere molto a chi poco essa ha dato.” Mi rispose senza esitazioni e molto più appropriatamente citando sempre Publilio Siro e ritrovando per un attimo lo spirito che mi piaceva, sorrisi incantato.
“Allora, per favore, bacia anche me, Filinna.”
Ubbidì: il suo viso si avvicinò al mio senza esitazioni, ma si limitò a sfiorarmi le labbra con le sue prima di ritirarsi.
“Filinna!” Protestai. “Questo non è un bacio! E lo sai.”
Le presi delicatamente il mento con la punta delle dita e la ricondussi alle mie labbra. Questa volta le sue labbra si aprirono e la baciai, accarezzandole la schiena.
La mia mano destra lasciò il suo viso e le si posò su una gamba. Con un sobbalzo si stacco da me e le sue mani volarono entrambe ad afferrarmi il polso per fermarmi, per poi lasciarlo all’improvviso appena si rese conto di cosa stava facendo.
A quel punto dopo quel solo bacio, sentivo il mio sangue pulsare nelle vene con più forza e il desiderio crescere dentro di me, ma era inutile illudersi sulla sua disponibilità. Il suo respiro era affannoso e potevo sentire il battito frenetico del suo di cuore, ma era per il piacere o per il desiderio, sembrava piuttosto per il panico e la paura. Non era Sabra e non era una prostituta e non sembrava pronta ad accettarmi con piacere, o quanto meno rassegnazione.
Certo avrei potuto ordinarglielo o impormi, era mio diritto, anche con la forza.  
Ma non ero in qualche remoto accampamento di frontiera, ero nella mia casa a Roma e lei non era una prigioniera barbara dalla lingua incomprensibile, era una “verna” una schiava nata e cresciuta in questa stessa casa, era la figlia di Cleone. No, non l’avrei presa in questo modo tra pianti e lacrime. Non era dignitoso e soprattutto non era quello che desideravo.
Sentendo la mia incertezza, ripeté ancora.
“Per favore, padrone.”
Con uno sforzo sensibile e con molto autocontrollo, alzai le mani, lasciandola libera.
“Puoi andare.”
Balzò in piedi e in un lampo fu fuori dalla stanza. Raramente si è vista una cerva colta di sorpresa scattare più velocemente.
Continuavo a sentire il suo profumo e il mio desiderio.
Mi alzai per versarmi un'altra coppa di vino.
Era la giusta occasione per applicare qualcuna della qualità stoiche che Zio Aulo lodava sempre.
Che gran fortuna.


I rotoli delle poesie rimasero immobili da quel giorno e la ragazza quando la incontravo era talmente intimidita da riuscire a malapena a salutare decentemente. 
Avevo compiuto in grave errore di giudizio, il mio comportamento era stato scorretto, lo capivo perfettamente con il senno di poi, avevo permesso una eccessiva familiarità dove non avrebbe dovuto essercene e il risultato era scontato: imbarazzo e mancanza d’armonia nella casa. Il rispetto è quello che regola una casa ben amministrata non certo la paura. La conoscenza del proprio ruolo e dei propri doveri, non certo l’anarchia.
Era stato molto divertente, trattarla in quella maniera, discutendo di lettere e poesia su un piano di parità, ma estremamente vano da parte mia, cosa mai doveva pensare uno schiavo se il suo stesso padrone mancava così palesemente a sé stesso? La sua confusione era colpa mia, il fatto che apprezzassi la sua intelligenza e fosse oggettivamente una fanciulla attraente, era solo una parziale scusante. Anzi imponeva da parte mia maggiore senso del dovere e che, ristabilissi in maniera chiara la situazione proprio per aiutarla a comportarsi in maniera appropriata. Dovevo prendermi le mie responsabilità: le avrei dovuto parlare, ammonendola con gentilezza, viste le mie responsabilità nel suo smarrimento, dandole corrette indicazioni.
Questo era però un pensiero ed una preoccupazione secondaria in quei giorni, ben altri impegni e affari mi attendevano. Nei giorni successivi partii per Tuscolo per la villa di un amico di famiglia dove mi trattenni alcuni giorni discutendo con lui e con i suoi ospiti del mio futuro e delle mie prospettive. Le loro parole mi rincuorarono e mi incoraggiarono: tutti si dichiararono pronti ad appoggiarmi nel mio desiderio di recuperare il seggio in senato che era stato di mio padre e di tutti i miei antenati.
Ben presto avrei raggiunto l’età necessaria a candidarmi a Questore e questa carica mi avrebbe aperto le porte del senato. Potevo contare sul loro appoggio per essere eletto, ma nel frattempo, il parere era unanime, non dovevo impigrirmi e perdere occasioni di mostrare le mie qualità e farmi notare. La cosa migliore era trovare un altro incarico militare in qualche provincia di confine che mi desse la possibilità di distinguermi, magari raggiungendo il grado tribuno in qualche legione.
Ritornai a Roma dopo alcuni giorni, motivato e di buon umore, con la vita che mi sorrideva.
Non dovrebbe destare meraviglia, se, concentrato su questi affari, nei giorni seguenti non pensai né a Filinna né al proposito che avevo fatto di parlarle. Fino a che, un pomeriggio, mi ero al solito ritirato nel piccolo studio quando la sentii entrare per riempire e accendere le lampade.
Quel rumore familiare, mi fece tornare in mente quello che avevo troppo a lungo posposto e decisi di cogliere l’occasione, mi voltai, già sorridendo cordiale, per non intimorirla e predispormi a parlarle con salda cortesia, ma quando alzai gli occhi, invece di trovare la graziosa figura di Filinna, vidi un giovane schiavo, un ragazzetto ossuto a cui iniziavamo appena a spuntare i primi sgraziati ciuffi di barba, di cui non ricordavo il nome.
Lo fissai meravigliato per un attimo.
“Chi saresti tu? Questo lavoro non è di solito svolto da ragazza?”
Lo schiavo si fermò di colpo, l’anforetta dell’olio sollevata a metà nell’atto di riempire una lucerna, e mi fissò giustamente sbigottito dal mio tono di voce e della mia aria irritata. 
Il poveretto balbetto addirittura incespicando nella risposta:
“Sì, padrone. Ci dividiamo il lavoro, ognuno metà casa.”
Ecco una cosa che non sapevo, ma sono dettagli che sfuggono in case così grandi.
“Ah, capisco. Non ti avevo mai visto qui al secondo piano.”
“Io di solito faccio l’altro lato della casa, Padrone.” Si sentì in dovere di spiegare, balbettando un po’ di meno. “Filinna, la ragazza, padrone, mi ha chiesto di scambiarci i posti. Io ho accettato padrone, ci sono meno lampade da sistemare qui.”
Non mi accorsi neppure della sua confessione di pigrizia, preso com’ero da un altro pensiero: aveva chiesto di cambiare lato. Era evidente che volesse evitare questa stanza e di incontrarmi. Il che era ridicolo o forse addirittura offensivo, in qualunque caso non ammissibile.
“Valla a chiamare ragazzo: dille di venire qui perché le voglio parlare.” Ordinai, brusco.
Il ragazzo svanì immediatamente, fin troppo contento di sfuggire a qualsiasi cosa mi stesse innervosendo e io tornai alle mie carte ed aspettai.
Aspettai, finii di scrivere quello che dovevo e ancora nessuno si presentò.
Tutto ciò era veramente eccessivo, mi alzai, quasi contando di sentire i suoi passi nel corridoio che si affrettava, ma era vuoto. Scesi al piano terreno e trovai Eryx nell’atrio intento a controllare la pulizia del pavimento e chiesi direttamente a lui di trovarla.
Non era in cucina, non era negli alloggi degli schiavi. Il ragazzetto che avevo mandato a cercarla per primo venne rintracciato e ci confermò che l’aveva trovata a sistemare le lampade nella camera da letto di mia madre e di averle comunicato il mio ordine.
Chiamammo Cleone, ma non aveva idea di dove fosse la figlia. Due altri schiavi vennero mandati a cercarla in altre parti della casa, ma non c’era traccia di lei, anche se venne ritrovata, in uno degli stanzini, l’anfora d’olio che usava per riempire le lucerne. Mi rattristai ad osservare il volto di Cleone riempirsi di apprensione man mano che risultava sempre più chiaro che Filinna non era più dentro le mura di casa.
A quel punto ci raggiunse anche mia madre attirata da tutto quel movimento.
“Cosa mai sta succedendo? Cos’è tutta questa agitazione? È forse scoppiato un incendio? È in corso una rivolta di gladiatori?”
“No, Padrona.” Le rispose Eryx, usando la sua voce più suadente e serena. “È solo una giovane schiava che è scappata.” Eryx sarebbe davvero stato in grado di far sembrare un incendio o una rivolta un banale inconveniente.
“Tutto questa agitazione, per una fuggitiva? Queste sciocche ragazze stanno sempre a scappare o a fare altre stupidaggini simili. Mandate un messaggio alla milizia con la descrizione e domani fate fare un annuncio dal banditore nel foro, con una ricompensa. La ritroveranno.”
Diretta ed efficace come un generale sul campo di battaglia, la mia cara madre, se non di più. Senza dire altro si girò e se ne andò seguita dalle sue ancelle.
Eryx mi guardò cercando approvazione, l’idea di mia madre era decisamente sensata e pratica, il modo più sicuro per ritrovarla, ma come capendo i nostri pensieri Cleone si aggrappò alla mia tunica e si intromise. 
“Per favore, Padrone! Non so di quale follia sia in preda mia figlia, ma vi prego aiutatemi a ritrovarla padrone! La mia bambina è sola là fuori e sta per calare la notte!” La sua voce era angosciata e piena di paura.
In effetti, malgrado gli sforzi dei Prefetti, Roma era tutt’altro che un luogo sicuro. Al calar del buio era prudente per un uomo girare armato, meglio se scortato. Una ragazza, come Filinna, da sola era decisamente in pericolo, un pericolo molto probabilmente peggiore della punizione spettante a uno schiavo fuggitivo.
Quale follia aveva fatto. Ero arrabbiato con quella sciocca ragazza, ma mi sentivo anche in colpa per i miei errori e non potevo ignorare la disperazione del buon Cleone. 
“Eryx, per favore, avvisa Romolo di preparare i suoi uomini per andare a cercarla e scegli anche degli altri schiavi fidati perché si uniscano a noi. Fai che tutti abbiano un’arma, almeno un bastone robusto o un coltello affilato. Tu, Cleone, vai a parlare con tua moglie e interroga le amiche di tua figlia, se hanno notizie o se anche solo hanno idea di dove potrebbe cercare rifugio. Vado a prepararmi, ci vediamo all’uscita sul retro.”

All’uscita posteriore, eravamo una ventina di persone, rimandai in casa Cleone, troppo vecchio e troppo agitato, ma accettai con noi suo figlio. Divisi i presenti in 5 gruppi uno diretto di me, uno da Romolo e scelsi dei servi capaci per gli altri, saremmo andati in direzioni diverse, iniziando a cercare nei posti suggeriti dalla madre e dalle sue amiche.
Fu Romolo a trovarla, sui confini della Suburra, dove sicuramente sarebbe scomparsa per sempre inghiottita nei vicoli.  
“Ho tentato di pensare come una ragazza per immaginare dove potesse essere.” Disse Romolo.
“E per fortuna non ne è capace, perché lei aveva sbagliato strada e si era persa e l’abbiamo incrociata solo per caso! Padrone” Lo prese in giro uno dei suoi figli allegro di aver ritrovato la fuggitiva. Romolo gli tirò una affettuosa scoppola.
“Vi ha dato problemi?”
“No Padron Marco, era spaventatissima, aveva capito in che guaio si era messa, era contenta l’avessimo trovato ed è venuta con noi spontaneamente.” Tacque un attimo, poi aggiunse con voce grave. “Filinna è una brava ragazza.” Considerato quanto era taciturno Romolo, questo era l’equivalente dell’intera arringa di un oratore nel foro e di certo era più sincera.
I suoi figli schierati dietro di lui annuirono, le facce serie, quasi perfette imitazioni del loro padre. Eryx mi guardò tentando di nascondere la sua espressione insicuro di come potessi reagire a quella opinione non richiesta. Aveva condotto Filinna, in uno dei magazzini che sotterranei che usavamo come cella quando ce ne era bisogno ed era tornato a controllare con me che tutti fossero rientrati sani e salvi.
“Lo so, Romolo, lo so.” Gli risposi dopo un lungo istante di silenzio. Volevo bene a Romolo, era lui che mi aveva sopportato e mi scortato nelle mie scorribande da ragazzino, proteggendomi, coprendomi e a volte prendendosi le mie colpe. Anche se ora avevo spalle larghe come le sue ed ero addirittura un paio di pollici più alto, per me rimaneva sempre il gigante che da bambino mi sollevava con una mano. Gli posai una mano sulla spalla da uomo a uomo.
“Domani, domani affronteremo la questione, intanto è a casa. Se sono rientrati tutti è venuto il tempo di andare a riposare.” 
Mi avviai ormai stanco e quasi barcollante verso la mia camera, ma le prove di giornata non erano finite, sotto il peristilio mi aspettava Cleone. Dovetti sopportare lunghi minuti di ringraziamenti e di lacrime prima che arrivasse al punto:
“Cosa sarà della mia bambina, Padrone?”
“Domani, dopo una buona notte di sonno che porterà consiglio a tutti sarà giudicata da mia madre.” Ero sfinito e mi si chiudevano le palpebre, ma non ebbi problemi ad interpretare quello che dicevano gli occhi di Cleone e lo fermai prima che si dilungasse a parole: “No, Cleone. È una ragazza e il giudizio spetta a mia madre, questa è l’usanza dei Corvino!” Poi tentati di tranquillizzarlo. “Non farti travolgere dalla preoccupazione. È qui, al sicuro, e nessuno dimenticherà che è tua figlia, e di quanto ci sei stato fedele negli anni. Non ti preoccupare.”
“Grazie Padrone! Grazie… una sola ultima domanda, scusate questo povero padre, le avete parlato? avete idea perché abbia compiuto questa pazzia? Perché?”
Sono stato più volte lodato per il mio coraggio in battaglia, lo stesso Flavio Vespasiano mi rese onore una volta, ma guardando gli occhi di Cleone non ebbi il coraggio di essere sincero.
“No, non mi ha detto nulla.” Ed era vero ed era una menzogna.

La mattina dopo mi svegliai con uno schiavo, imbarazzatissimo, accanto al mio letto: era stato mandato da mia madre, mi disse per assicurarsi che mi alzassi in tempo per unirmi a lei nell’Atrio.
Quando scesi, le porte erano ancora chiuse e non vi era solita folla di visitatori e postulanti, era assente anche il solito andirivieni e la frenetica attività dei servitori, la casa era silenziosa e immobile.
Mia madre era già arrivata e sedeva, eretta e regale, su uno sgabello, vestita in una austera tunica di lana scura, il viso severo, nel posto più sacro che esiste in una casa, il sacrario dove sono esposte le maschere funebri degli antenati. I Valeri sono una gens antica, risalente ai primi giorni della repubblica. Molte file di maschere di cera coprono il muro dell’atrio, alcune così antiche e consumate dal tempo da avere a malapena conservato dei tratti umani, altre più recenti e riconoscibili, le ultime erano i volti cari e amati di mio padre e di mio fratello Gaio, che si erano suicidati per ordine di Seiano quando io ero un ragazzino.
Passando di fronte all’altare dei Lari non potei fare a meno di notare delle offerte recenti, dei dolci e una piccola pagnotta. Mi domandai se fosse stato Cleone chiedendo la protezione degli Dei per la sua figliola o magari fosse stata mia madre chiedendo aiuto per giudicare saggiamente. 
La raggiunsi, accanto a lei c’era uno sgabello vuoto, per me, dall’altro lato sedeva Zio Aulo, dietro immancabili erano in piedi le sue due ancelle.
“Finalmente sei arrivato.” Mi accolse senza sorridere. “Così possiamo sbrigare questa faccenda.” Aveva preso la cosa in maniera decisamente seria, notai con una certa apprensione. Si girò verso Eryx “Fai portare la schiava.”
Il silenzio e la quiete di quel posto solitamente pieno di vita e movimento era inquietante, eravamo soli, ma ero sicuro che dietro tutte quelle porte chiuse la servitù fosse in attesa, trattenendo il fiato e tendendo le orecchie per ascoltare quello che si sarebbe detto e capire cosa sarebbe successo.
Eryx tornò conducendo Filinna seguita da Cleone e da sua moglie, entrambi, si vedeva chiaramente, avevano l’aria di chi ha passato una notte insonne per l’ansia e la paura. Forse più della stessa Filinna che indossava la sua solita tunica, ma sporca e in disordine dopo la fuga e una notte in cella, anche i suoi bei capelli era scomposti e numerose ciocche le erano sfuggite dalla coda e la coprivano il viso, teneva la testa bassa, con aspetto umile e sottomesso, un atteggiamento prudente e adeguato. Era libera, non aveva né catene né altre costrizioni, sarebbe stato forse esagerato per una ragazza così minuta e poi, mi rendevo conto, anche Eryx, come tutti, la conosceva fin da quando era una bambina e doveva essere a disagio in quella situazione e all’idea di quello che poteva capitarle. Persino la sua grande abilità nel nascondere le emozioni e le opinioni questa volta non bastava.
Si fermarono di fronte a noi ed Eryx proclamò con voce cantilenante: “Padrona, questa schiava, Filinna figlia di Cleone, ieri è fuggita, ma è stata ritrovata e ora è di fronte a voi per essere giudicata.”
A quelle parole Cleone si inginocchiò e fece inginocchiare la figlia.
Uno schiavo non ha famiglia e non ha origini e il fatto che, persino il sempre diplomatico Eryx, invece, evidenziasse chi era il padre era un chiaro segno, una richiesta di considerazione e clemenza Si meritò per tanto ardire uno sguardo di fuoco di mia madre.
“Quindi, ragazza, hai provato a scappare.” Disse mia madre, la voce fredda, dura e con una ostilità che mi soprese spiacevolmente. “Trovi così sgradevole questa casa? Sei insoddisfatta della vita che conduci?” Tanto sarcasmo ovviamente non aspettava risposta, Filinna si limitò saggiamente a piegare la testa ancora di più. “Se davvero desideri lasciarci possiamo accontentarti. Al mercato degli schiavi di sicuro troveresti un nuovo padrone che ti porterebbe lontano da qui ad una nuova vita.”
La madre di Filinna si lasciò sfuggire un gemito di sgomento. Il commento di mia madre era molto crudele: era evidente che al mercato una schiava giovane e graziosa come lei sarebbe stata comprata per qualche bordello, un destino assai triste.
Mia madre girò gli occhi inferocita su Cleone.
“Cleone, controlla il comportamento di tua moglie!” E il pover’uomo ancora prostrato come un mendicante lasciò il fianco della figlia per zittire la moglie.
“Madre,” intervenni, “sappiamo tutti che tentare di fuggire è una colpa e una colpa grave, ma è cresciuta in questa casa e ha sempre servito bene e con fedeltà.”
Mia madre mi guardò dubbiosa, per poi riportare gli occhi su Filinna che aveva silenziosamente iniziato a piangere.
“E allora le daremo un’altra possibilità. Non la venderemo. Allo stesso modo, non credo sia il caso marchiarla come fuggitiva, è una fanciulla graziosa e non voglio sfigurarla.” Mi fissò, come a cercare una mia reazione. Mi limitai ad un cenno di assenso. “Come punire il suo gesto dunque? Se solo si potesse capire le sue ragioni, se di ragione si possa parlare.” Lo sguardo si poggiò di nuovo su di me, chiaro che mi ritenesse coinvolto. “Ma forse sarebbe solo una perdita di tempo indagare sulle motivazioni di una simile follia!”
Tacque un momento, riflettendo.
“Venti colpi di verga. E che venga mandata in qualche fattoria lontana da questa casa.”
Filinna, alzò gli occhi di colpo a guardare mia madre gli occhi terrorizzati, più che per i colpi, per la terribile all’idea di dover lasciare quella casa, poi, unica mossa sensata che poteva fare, piegò di nuovo il capo, soffocando un singhiozzo, la madre invece non riuscì a trattenersi e inizio a gemere. Cleone aveva un’aria sconvolta, all’idea di perdere la figlia, e apriva e chiudeva la bocca senza emettere suono, lui sempre ricco di parole appropriate. Sapevo di dover intervenire, ma prima che potessi dire qualcosa, fu zio Aulo a intromettersi.
“Mia cara sorella, permettimi di dire che il tuo giudizio è forse eccessivamente duro vista la situazione, la ragazza….
Zio, malgrado tutti gli anni di esperienza, malgrado fosse dello stesso sangue di mia madre, ancora non sapeva come prenderla purtroppo, venne bruscamente interrotto, con un gesto e con un’aspra risposta.
“Basta, le lacrime di una fanciulla graziosa ed ecco voi uomini siete disposti a dimenticare e perdonare tutto. Trenta colpi e se sento un altro lamento o pianto finirà in Spagna o in Africa.”
Persino il sempre prudente Eryx sembro guardarmi con la coda dell’occhio come a chiedermi di fare qualcosa.
“Madre,” esordii, meritando un immediato sguardo infuriato, come se la stessi colpendo a tradimento, “il tuo giudizio è severo, ma giusto e saggio.” Parlavo con prudenza, tentando di mettere a frutto tutti gli anni di studio della retorica e dell’oratoria. Sapevo di muovermi in un terreno infido, una parola sbagliata e avrei solo peggiorato la situazione. “Un fuggitivo merita di essere punito e di essere da monito, su una cosa, però ti chiederei rispettosamente di riflettere e rivalutare. Scacciandola e condannandola ad una vita lontana da Roma non punisci solo lei, ma anche chi le vuole bene. Privi un padre dell’amore della sua progenie, spezzi il cuore a un uomo e non ad un uomo qualunque, ma del nostro buon Cleone.” Lo indicai con un gesto del braccio forse un po’ troppo da retore, ma ormai ero lanciato e sapevo dove volevo arrivare. “Madre, non possiamo dimenticare i suoi anni di fedele servizio e la dedizione che ha sempre mostrato per la casa e per l’educazione mia e del mio povero fratello Gaio.” Nominare mio fratello in una conversazione con mia madre non è molto leale, ma visto che ormai eravamo ai Triari qualunque arma era buona, e conclusi. “Se non lei, almeno lui merita misericordia e considerazione. Non diamogli un simile dolore, e non scacciare la sua unica figlia in una terra lontana.”
Scese un attimo di silenzio, gli sguardi dei presenti si appuntavano su mia madre tentando di capire le sue reazioni, escluso quello di Cleone, che colse l’occasione per prostrarsi ancora più profondamente chiedendo clemenza. Al nome di Gaio avevo visto lo sguardo di mia madre vacillare per cui forse una piccola speranza c’era.
“Il fatto che sia proprio la figlia di Cleone ad averci tradito, rende la cosa, forse, ancora più grave.” Furono le sue prime parole, facendomi temere di avere fallito, poi la sua bocca si piego un attimo in una smorfia triste e si arrese. “Rimarrà a Roma, dunque, e speriamo che sappia meritarsi il nostro perdono e riguadagnare la nostra fiducia.”
Rimanevano i trenta i colpi, ed erano tanti per una ragazza minuta come Filinna, ma conoscevo mia madre e di più non ci si poteva spingere, così decisi di interrompere quello spettacolo prima che le cose potessero complicarsi.
“Questa è la decisione di mia madre, ed è saggia, giusta e clemente. Che sia fatto.” Mi alzai. “Sovraintenderò personalmente.” Con un passo mi avvicinai a Eryx e gli dissi, a voce più bassa. “Portala di sotto, non facciamone uno spettacolo e rispettiamo il suo pudore. Ti raggiungerò, appena mangiato un boccone. Poi fai aprire le porte e fai accogliere i visitatori, ma se non ci sono persone importanti e affari urgenti avvisateli di ritornare domani.” Mi voltai verso mia madre come a chiedergli licenza e me ne andai verso il triclinio per fare finalmente colazione.
Qui a servire trovai uno schiavo fidato e che conoscevo bene, dall’esageratissimo nome di Alcmeone, lo feci avvicinare con un gesto.
“Ho un compito per te. Invero ne ho tre. Il primo è trovare Sabra e mandarmela, che le devo parlare. Sai di chi parlo?” Aspettai un suo cenno di assenso. “Poi dovrai andare nella mia camera. Sullo scaffale accanto al letto, in alto, vi è un vasetto di ceramica scura, chiuso con un tappo di cera, prendilo, poi vai nelle stalle e ti fai dare il frustino leggero, quello usato per i puledri, mi hai capito?” Annuii di nuovo e sperai che avesse capito tutto veramente, malgrado il nome da pitagorico non aveva fama di grande intelligenza. “E devi portare tutto ad Eryx giù nel seminterrato ti è chiaro?” Altro cenno con la testa. “Ripeti.” Ordinai per sicurezza. Soddisfatto della sua risposta lo mandai in azione.
Sabra arrivò che avevo appena finito di mangiare finalmente un boccone. Bevetti una coppia di vino per mandarlo giù.
“Sabra, ho bisogno delle tue doti. Una pozione delle tue qualcosa che allievi il dolore.”
“Certo, Padrone, so cosa fare, ma non va presa spesso.” Poi a voce bassa. “È per la figlia di Cleone, vero?” 
Annuii e lei mi sorrise con aria complice. “Vado e ve la porto di sotto.”

Quando scesi, Eryx era già lì di fronte alla porta chiusa di una delle celle. C’era anche Cleone, con la moglie lacrimosa e singhiozzante, tentarono di aggrapparsi alla mia tunica, ma riuscii a staccarmeli e ad evitare ringraziamenti e implorazioni, feci cenno ad Eryx ed entrammo insieme.
Filinna si alzò in piedi quasi di scatto, ma quando mi vide abbasso la testa evitando il mio sguardo. La tunica sporca, i bei capelli in disordine e il viso rigato di lacrime ne facevano una figura assai pietosa. Se mai avessi voluto rimproverarla di quanto era stata sciocca e folle e di quanto avesse rischiato, mi sarebbe morto in gola a vederla così disperata e spaventata.
MI guardai intorno, quel piccolo magazzino era quello che veniva improvvisato a cella quando ce ne era bisogno. In un angolo c’era uno sgabello su cui Filinna era seduta prima che entrassimo, accanto un tavolato coperto di paglia che funzionava da giaciglio e sull’altro lato un piccolo tavolino di rozza fattura, su cui vidi il vasetto di unguento e il frustino che avevo mandato a cercare 
Non doveva essere un posto piacevole per passare la notte in attesa di essere giudicati, mentre la paura per quello che ti può accadere ti scava nelle viscere.
L’unica luce arrivava da una finestrella poco sotto il soffitto assicurata da grosse sbarre. Sul muro era assicurato un robusto anello di ferro a cui si poteva fissare, se necessario una catena. Da una delle travi del soffitto pendevano delle manette a 4, 5 cubiti dal pavimento e per finire accanto alla porta erano appesi vari tipi di fruste e verghe e un flagrum dall’aria crudele con piccoli pesi di piombo all’estremità delle cordicelle di pelle intrecciata.
Filinna seguì il mio sguardo con preoccupazione. 
“Perdonatemi padrone.” Disse a voce bassa, la prima volta che la sentivo aprir bocca da quando l’avevamo ritrovata.
“È un po’ tardi per chiedere perdono, ragazza. Quello che è fatto e fatto e mia madre ti ha giudicato, ma è quasi finita e presto sarà tutto passato.” 
Non ci furono repliche e feci un cenno a Eryx di procedere.
Fu lui a legarla a con le braccia sollevate, poi prese un piccolo coltello e le taglio il retro della tunica, scoprendole la schiena fino alla vita. I suoi gesti erano esperti, non era certo la prima volta che era incaricato di punire uno schiavo, ma c’era gentilezza nei suoi modi e nelle parole con cui provava a rassicurarla.
Alla fine, prese dalla cintura una striscia di cuoio lunga poco più di un palmo.
“Stringi questo tra i denti, bambina, ti aiuterà a sopportare il dolore, e non ti farà mordere la lingua. Non avrai cicatrici prometto.” Nella su voce c’era apprensione e sollecitudine. Gli penava punirla. 
Andò al tavolo e prese il frustino lo soppesò e mi guardò annuendo.
“Grazie, padrone, avete avuto un ottima idea.”
“Te la senti Eryx? Vuoi.. vuoi che faccia io?”
Impiegò un attimo prima di scuotere la testa.
“No, grazie, padrone, è il mio compito. Tocca a me.”
Mi scostati per lasciargli spazio. Non era certo la prima volta che sovraintendevo a una fustigazione. Era una punizione comune per le mancanze dei legionari, ma era una cosa diversa osservare un uomo robusto, dalla schiena larga e imponente, che, con sguardi di sfida e parole spavalde, era pronto ad affrontare il dolore e la punizione con coraggio. Filinna invece aveva gli occhi sbarrati e tremava dalla paura, la schiena inarcata e tesa era snella e si vedevano le vertebre e la forma delle costole sotto la pelle delicata e faceva pena al cuore a vederla così.
Il primo colpo la colse di sorpresa ed emise un grido a denti stretti, ondeggiando sulle punte dei piedi.
Quando si fermò, Eryx le diede il secondo colpo e poi, seguendo il ritmo, il terzo e il quarto. Colpiva dosando la forza, senza esagerare, mirando ogni volta ad una parte diversa della schiena per non sovrapporli e non ferirla.
Quando, arrivati verso la decima frustrata, Filinna iniziò ad agitarsi come a provare vanamente ad evitare i colpi, fece una pausa.
“Se puoi, bambina, tenta di stare di ferma, più che puoi, se no rischio di farti ancora più male.” Disse. 
Filinna assenti, voltandosi a guardarci con gli occhi lucidi e sbarrati e quando Eryx la colpì di nuovo iniziò a piangere. Dopo il quindicesimo colpo malgrado tutta l‘esperienza e tutte le attenzioni la pelle si iniziò a tagliare e la schiena a macchiarsi di sangue. Quando ne vidi troppo feci fermare Eryx con un gesto della mano.
“Basta così, abbiamo finito.”
“Padrone?” Mi guardò meravigliato.
“Io ho contato trenta colpi, corretto vero?”
Ci fu un attimo di esitazione nella risposta, poi capì e annuì. “Sì padron Marco.”
“Sleghiamola.”
Ci accostammo a Filinna, le spalle scosse dai singhiozzi.
È finita tranquilla, è finita. Adesso ti liberiamo, ce la fai a stare in piedi?” Chiese Eryx. Lei fece un cenno affermativo mentre la scioglieva, ma appena libera fu chiaro che le sue gambe non la sorreggevano. La afferrammo ognuno per un braccio prima che cedessero e la conducemmo verso il pagliericcio. La pelle era fredda, bagnata del sudore gelato della sofferenza.
Quando provò a distendersi a pancia in giù la tunica tagliata rischiò di aprirsi, distolsi lo sguardo per decenza mentre lei si provava a coprire con le mani e il movimento brusco la fece gemere di dolore.
“Tranquilla, è finita.” Le disse Eryx “È tutto finito.” Le accarezzò la testa per consolarla.
“Lasciaci soli un attimo, voglio parlarle.” Dissi io.
Quando la porta si chiuse alle sue spalle e sul viso di ansioso di Cleone, presi lo sgabello e mi sedetti accanto a lei. 
“Perché hai fatto questa pazzia, Filinna?” Le chiesi finalmente, tenendo un tono gentile per non spaventarla ulteriormente.
Lei alzo gli occhi ancora umidi su di me, una mano salì al volto ad asciugarsi le lacrime. Le tremava la mascella per la tensione.
“Avevo paura che foste arrabbiato con me, padrone.” Rispose alfine.
La fissai perplesso e lei distolse lo sguardo. Forse mia madre aveva ragione: inutile indagare di più della logica che c’era dietro tutto questo, se ce ne era. 
“Beh di certo sei riuscita a farmi arrabbiare e non solo a me.”
“Scusatemi, Padrone.” Ripetè.
“Hai sbagliato, sei stata punita. La questione si chiude qui.” Si mosse per cercare una posizione più comoda e le labbra amabili si piegarono in una smorfia di dolore. La aiutai a sistemarsi. “Non fare altre sciocchezze simili, Filinna, non ti aiuterò come ho fatto questa volta. Ti chiamerò ancora, ma tu non fare sciocchezze. Anche volendo non ti potrei aiutare.” 
I suoi occhi mi evitarono per un attimo mentre rispondeva. “Sì, Padrone.”
“I tuoi genitori sono fuori adesso, li farò entrare. Nel vasetto sul tavolino c’è un unguento che comprai in Gallia, fa meraviglia per rimarginare le ferite e non lasciare le cicatrici, fattelo mettere la sera. Ho chiesto a Sabra di prepararti una delle sue pozioni per alleviare il dolore. Sono sicuro che Eryx ti darà compiti leggeri nei prossimi giorni. Presto tutta questa faccenda sarà solo un brutto ricordo.”
Quando uscii dalla c’era una piccola folla, la madre di Filinna, Sabra e un'altra schiava, che entrarono subito cariche di bende e vasi di acqua tiepida per pulirle le ferite e prendersi cura di lei, Eryx, Cleone e il figlio di questi.
Cleone sembrava finalmente aver recuperato un po’ di colore e un po’ di spirito, questa volta non mi si appese alla tunica o si gettò in terra, si limitò alle parole, di cui era maestro. Partì da un semplice ringraziamento, per iniziare a lodare la mia bontà, si dichiarò commosso dalla mia benevolenza, di quanto avrebbe sofferto nel perdere la sua unica figlia e tanto, tanto, altro, fino ad arrivare a chiudere in maniera che mi soprese e mi fece capire che aveva parlato con la figlia. “Scusatela, se vi ha offeso, Padron Marco, per amor mio perdonatela.”

Per fortuna, una volta risalito, trovai l’atrio vuoto e nessuno da dover ricevere, così mi cambiai e uscii di casa, accompagnato da un paio di schiavi e puntai verso le terme di Agrippa deciso a svagarmi e a non pensare. Avevo il cuore pesante e avevo bisogno d’aria.
Rientrai a notte fonda e piuttosto alticcio. Avevo passato la giornata nelle terme, rilassandomi e parlando con gli amici che vi avevo incontrato e successivamente la serata a girare per la città in loro compagnia.
Purtroppo, mia madre era ancora in piedi quando arrivai, ancora seduta nel triclinio a filare in compagnia delle sue ancelle, una perfetta rappresentazione della madre dei Gracchi rediviva. Mi guardo attraverso l’atrio con profondo disprezzo, poggiò il fuso in grembo e disse a voce alta e chiara:
“Dovresti andare a dormire Marco, non hai l’aspetto degno di un Valerio.”
Mi avvicinai, tentando di darmi un certo contegno e di fingermi, senza molto successo, in qualche maniera sobrio.
“Ho incontrato degli amici alle Terme e ci siamo… ehm, fermati insieme.”
Lei fece un gesto con la mano come a scostare le mie parole.
“Sciocchezze. Comunque, visto che sei qui e visto che stai prendendo in mano il tuo ruolo di capo famiglia, volevo consigliarti di fare una visita a Baia. Mentre eri via ho iniziato a rinnovare la villa laggiù, è rimasta disabitata per troppi anni, da quando tuo padre e tuo fratello… “La voce sfumò senza completare la frase. “Comunque, ora abbiamo bisogno di nuovo di un posto appropriato fuori Roma. Se vuoi darti alla politica ti servirà un luogo adeguato a ospitare e dare feste. Le tenute a Nomento e a Tusculo sono poco più che fattorie, ottime se ti serve un ritiro agreste e aria buona e fresca, ma non sono un posto per ospiti di riguardo.
“Certo madre, hai ragione.” Biascicai sentendo il ventre in subbuglio, ma mia madre continuò imperterrita.
“C’è bisogno che tu vada a controllare i lavori, tutti dicono che le cose vanno magnificamente, ma di certo nella realtà ci staranno rapinando indegnamente e solo facendo finta di lavorare. Se il padrone si fa vedere forse si limiteranno un poco, non è certo un compito che possiamo svolgere io o tuo zio.”

Baia è una piccola località a circa 150 miglia a sud di Roma sulla sponda settentrionale del golfo di Napoli, forse uno dei posti più belli che ci sia sulla faccia di questa terra ed è soprattutto una delle località favorite da qualsiasi persone di una certa importanza. Il posto giusto per incontrare gente e avere buona compagnia.
Personalmente non mi dispiaceva minimamente recarmici, in quel posto avevo alcune dei migliori ricordi della mia infanzia, momenti felici che mi riscaldavano il cuore. Non persi tempo a organizzarmi.
Per accompagnarmi scelsi due schiavi fidati a cui aggiunsi il figlio di Cleone, come segretario e, se ci fosse stato bisogno, contabile, era anche un modo di segnalare come lui e la sua famiglia avessero ancora il mio favore e la mia fiducia. Poi, con grande gioia, trovai anche un paio di amici disponibili ad accompagnarmi e a godersi il viaggio con me.
Per raggiungere Baia ci sono due possibili vie, la più lenta è quella via terra, percorrendo la via Appia verso sud, sono 5 forse 6 giorni di viaggio, un po’ di meno se uno sforza i cavalli e la schiena, l’altra, decisamente più rapida è scendere ad Ostia e da lì procedere via mare, in quel caso sono poco più di due giorni, se il tempo è buono e il vento favorevole. 
Fummo seriamente tentati di andare via terra, eravamo tutti giovani e la cavalcata e le soste nelle locande per la notte, promettevano di regalare avventure ed incontri, magari fugaci, ma piacevoli, ma alla fine propendemmo per la saggezza e procedemmo via mare.
Erano anni che non tornavo a Baia, ma ricordavo ogni singolo angolo ancora a memoria. I lavori non avevano modificato la struttura della villa, o cambiato la disposizione dei luoghi, avevano solo rinfrescato e riparato. Solamente gli affreschi e le decorazioni era stato necessario rifarli quasi da capo: il tempo e la salsedine del mare li aveva danneggiati troppo.
Altra cosa che era stata interamente ricostruita erano i Bagni, la vasca del frigidarium era ora esagonale e molto più grande di quella precedente, il fondo decorato da un bel mosaico raffigurante il ratto Proserpina e di come sua madre Cerere la andò cercando e anche il calidarium era stato spostato.
Capivo perfettamente le ragioni di mia madre. Mio padre e mio fratello erano morti in quel posto e voleva cancellare qualsiasi eventuale ricordo, qualsiasi triste memoria. Se mai fosse possibile.
Uscii all’aria aperta, nei giardini, che stavano venendo ripiantati e risistemati. Il mio umore si sollevò assaporando l’aria fresca del mare e alla vista che si apriva ai miei occhi: il golfo si estendeva in tutto il suo splendore di fronte a me e l’occhio spaziava fino a Capri e alla imponente massa del monte Vesuvio, con la cima ancora coperta di neve malgrado la stagione avanzata.
Malgrado tutto non credo che fosse possibile scacciare le memorie da quel posto, forse, a rifletterci bene, non era nemmeno giusto. C’erano ricordi tristi, ma anche tanti altri che sarebbe stato delittuoso anche solo provare a cancellare. Tra quelle siepi giocavo ricorrendo Gaio, su quella panchina in pietra di fronte a me mi sedevo a leggere Omero insieme a mio padre.
“Ma perché padre?! Ma il mare non è rosso, perché mai Omero scrive una cosa simile?!” dicevo con voce alta e acuta
“Marco, cosa scrive Omero? Cosa scrive esattamente? Quali sono le parole che usa? Le ricordi?”
Orgogliosamente citai senza esitazioni: “Oἶνοψ πόντος, padre.”
“Cosa significa esattamente, Oἶνοψ πόντος? Non dice rosso, dice il mare color del vino. Scuro come il vino, il mare è sempre in movimento sempre a cambiare, ma le sue profondità sono sempre scure, Marco. Devi pensare a come lo vedeva Odisseo durante i suoi viaggi, sentendo nel cuore il desiderio di rivedere Itaca, la sua patria, e sua moglie e suo figlio, la sua famiglia. E cosa c’è di più importante della patria e della famiglia?
Padre… Lui non c’era più, stava sulle mie spalle riportare la famiglia al posto che gli spettava.

Rientrato a Roma ripresi i soliti compiti e i soliti impegni, la routine quotidiana degli incontri e delle udienze, delle cene e delle feste, mi concentrai su quello che erano i miei doveri e miei compiti, poi un pomeriggio, ero sulla porta del tablinium, avevo appena congedato uno degli amministratori venuto a portare i conti e i numeri, quando vidi passare sul lato opposto dell’atrio Filinna, che trasportava una cesta. 
Era alcuni giorni che non l’avevo incrociata, e fui contento di vederla che si muoveva senza problemi, segno che la battitura non le dava più fastidio. Aveva la testa eretta, i capelli, sempre raccolti in una coda ondeggiavano audacemente da un lato all’altro al ritmo dei suoi passi e la sua schiena flessuosa era inarcata per bilanciare il peso dell’ignoto contenuto della cesta. Si accorse del mio sguardo e chinò la testa, ma mi accorsi che mi osservava di sottecchi, gli occhi nascosti sotto quelle belle ciglia. Ammirando la curva del suo collo, il profilo del suo viso, e il suo passo elegante, scoprii di desiderarla di nuovo. Mi voltai verso Eryx che era accanto a me.
“Eryx.”
“Sì, Padrone, ditemi.”
“Per favore, dì a Filinna, che vorrei mi raggiungesse in camera, questa sera, dopo la cena.”
Mi guardò e rispose con voce tranquilla e pacata.
“Certo, Padron Marco. Ci sarà.”

Questa volta Filinna si presentò e ne fui sollevato. Era evidente, comunque, che nella sua mente non era passato il sentiero di fuggire.
Non indossava la solita tunica con cui la vedevo abitualmente ma una di fine lino, decorata sui bordi, che le lasciava scoperte spalle e braccia e le caviglie e la avvolgeva seguendo il profilo del corpo. 
I capelli, si vedeva, erano stati lavati e acconciati di fresco, non erano raccolti nella normale coda, ma le cadevano sulle spalle sciolti in una nuvola nera. Dei boccoli sulla fronte e sui lati erano stati arricciati a farle da cornice al viso. Le labbra erano arrossate dal minio e le avevano truccato gli occhi, rendendoli ancora più dolci e luminosi.
Rimasi quasi stupito a guardarla, quando entrò, e lei, come confusa dal mio sguardo, si fermò vicino alla porta, nascondendosi, come suo uso, gli occhi dietro le lunghe ciglia. 
Per essere bella, era bella su questo nessuno avrebbe mai potuto contestarlo. 
“Vieni, Filinna, vieni.” Questo fu l’unica cosa riuscì a uscirmi di bocca, in un primo momento. Lei fece due passi in avanti venendomi per poi rifermarsi, in piedi. Si afferrò le mani sul davanti, poi, con quello che era chiaramente un movimento cosciente e forzato, le sciolse e lasciò ricadere le braccia lungo i fianchi. 
Tentando di trovare qualcosa da dire e interrompere l’imbarazzante silenzio aggiunsi: “Vuoi del vino?” 
La risposta, sorprendentemente, fu affermativa. Le offrii una coppa e lei la bevve quasi di un fiato e la vidi storcere la bocca e la sorsata le andò quasi di traverso, come può succedere a chi non sia abituato e non ne gradisca il sapore. Quando me la ripassò, gliene offrii una seconda coppia e lei declinò.
“No, grazie padrone, una basta.” Rispose, una nota di imbarazzo nella voce, guardandomi sempre di sottecchi.
“Come va la schiena? È guarita? O ti fa ancora male?”
“No, Padrone, non fa più male, è guarita. Quasi del tutto, padrone. Grazie per l’unguento che mi avete dato. Ha… ha aiutato molto. Vi ringrazio.” 
“Mi è dispiaciuto doverti punire Filinna. Non avrei voluto farlo.
Lei annuì guardandomi in silenzio, poi come ricordandosi in ritardo di avere una lingua rispose:
“Grazie, Padrone… lo so….”
Calò un altro attimo di silenzio, ma in fin dei conti non eravamo lì per far conversazione, mi avrebbe ricordato Zio Aulo. Così prima che si allungasse troppo e tornasse ad essere imbarazzante, mi avvicinai a lei e dissi semplicemente: “Sei davvero molto molto bella, Filinna.” Perché alle donne un complimento fa sempre piacere e quella era la pura verità.
Lei arrossì, sempre nascondendo lo sguardo, ma con abbozzo di sorriso.
“Grazie padrone.”
Allungai la mano e le accarezzai la guancia sorprendendomi di nuovo di quanto fosse morbida.
Era tesa, questo sì, e c’era anche della paura, ma sentivo che era la paura dell’ignoto, e sotto c’era anche un sentimento di aspettativa. Filinna era lì, non c’era solo il suo corpo, e stava a me, mi rendevo conto, fare in modo che ci rimanesse.
Le presi il mento tra le mani e le alzai la testa, i nostri sguardi si incrociarono e per una volta mi fissò negli occhi. Mi chinai e la baciai, il secondo bacio che le davo. Rispose, con cautela, forse timidezza, ma di buon grado. Le sue labbra erano morbide e dolci, mi piaceva il suo profumo.
Ci staccammo e le riaccarezzai il viso delicatamente.
Lei riabbassò istintivamente la testa, tentando, in quello che ormai mi sembrava un gesto usuale, di nascondersi al mio sguardo e disse senza troppo senso un semplice “Padrone….” Mentre veniva scossa come da una piccola risata imbarazzata.
“E sei dolcissima, lo sai.”
La testa si sollevò di nuovo a guardarmi e questa volta nei suoi occhi la scorsi chiaramente l’aspettativa.
Le accarezzai i capelli e il viso, e lei socchiuse gli occhi e io la ribaciai, poi le mie mani scesero sul collo e sulle spalle accarezzandole e le sfilai le spalline, guidandole lungo le braccia per far calare la tunica, fino a lasciarla nuda.
Riaprì gli occhi come meravigliata dal mio gesto e corse a coprirsi il petto con le mani, per poi, vincere il pudore e lasciarle ricadere lungo i fianchi, rialzò lo sguardo a scrutarmi e sul suo viso le emozioni si accavallarono, mentre provava sorridere. Un sorriso piccolo e timido, ma un sorriso.
Le presi per una mano e le feci fare un passo in avanti per liberarsi definitivamente dalla tunica. Il suo non fu il movimento sinuoso, sensuale ed esperto di Sabra, anzi, quasi inciampò, rimanendo impigliata con i piedi, e con una mano dovette afferrarsi al mio braccio per non cadere. La prima volta che mi toccava. Rise imbarazzata, e una volta ripreso l’equilibrio una mano corse a scostare i capelli dal suo viso e sorrise nuovamente a nascondere l’imbarazzo, totalmente splendidamente nuda a un passo da me.
“Scusate, Padrone.” Disse e io la adorai.
Non aveva le curve sensuali di Sabra, era più piccola e più magra, i seni alti e piccoli e la vita stretta, le gambe lunghe e snelle, ma era deliziosa a guardarsi.
“Filinna, di certo Afrodite ti ha concesso i suoi favori, e molti doni preziosi.” Le dissi.
La sua risposta arrivò senza esitazione.
“Così come Marte ha concesso grandi doni a voi, Padrone.”
Rimasi interdetto, cosa voleva dire? Cosa mai c’entrava?
Accorgendosi della mia espressione interrogativa il sorriso le scomparì dalle labbra e riabbassò la testa confusa.
“È.. è una cosa che disse mio padre, padrone. La disse commentando una delle lettere che avevate mandato dalla Britannia che ci era stata letta.” Provò a spiegare 
Iniziai a ridere e nel suo sguardo la confusione fu sostituita dall’apprensione, non capendone il motivo.
“Oh Filinna, tuo padre è sempre ricco di belle parole, ma ti assicuro che certe cose le dice solo per lusingare… No Marte non ha concesso a me nemmeno metà dei favori che Venere ha dato a te, ti assicuro e io non sono abbastanza bravo per esaltarli parole.”
E se ero incapace con le parole, mi dissi, meglio procedere coi fatti. Filinna era appena tornata a sorridere, quando la sorpresi, con un movimento veloce mi chinai e la sollevai di colpo prendendola in braccio, deliziosamente leggera.
Lei reagì un grido di sorpresa, agitando le gambe e gettandomi le braccia al collo, lo sguardo spaventato, prima di scoppiare ridere.
“Padrone!” Nella voce c’era quasi un dolce rimprovero.
“Cosa?” le risposi, fissandola, i nostri visi alla distanza di un palmo. La ribaciai e le sue labbra si schiusero, questa volta non c’era né timidezza né ritrosia.
Poi con due passi arrivai al letto e ce la poggiai distesa, mi raddrizzai e mi spogliai. 
Quando mi chinai sul letto una nuova ombra di paura le passò sugli occhi e nella voce.
“Farà male padrone?” Chiese. 
Cosa risponderle? Sulla faccenda avevo, invero, non troppa esperienza. Sabra non era certo vergine, neppure le ragazze dei bordelli che avevo frequentato… e non lo era neppure una mia cugina, giovane vedova, con cui l’estate prima di partire per la Britannia, avevo intrecciato una relazione e ci eravamo incontrati una mezza dozzina di volte, nel bosco dietro la sua villa sulla costa.
Certo alcune delle ragazze con cui ero stato in Britannia erano state molto probabilmente vergini quando erano entrate nella mia tenda, ma erano delle barbare, con cui non condividevo nessuna lingua e quasi nessuna parola e non mi ero sicuramente curato del loro piacere.
Invece Filinna distesa sotto di me, mi sorrideva incerta e, per qualche ragione, ci tenevo che continuasse a sorridere, mi piaceva il suo sorriso. Ci tenevo che le piacesse e volevo che venisse sorridendo quando l’avessi chiamata di nuovo ed ero già certo che l’avrei richiamata.
Che dirle quindi? Cosa risponderle… di quel poco che potevo sapere?
“Sì, la prima volta può far male.” Le accarezzai il viso per rassicurarla. “Ma se ti faccio male, dimmelo e io mi fermerò. Lo prometto. D’accordo?”
Ci guardammo negli occhi, la vidi annuire e mi abbassai a ribaciarla, mentre iniziavo ad accarezzarla ricordando quello che mi chiedeva Sabra quando voleva le dessi piacere.

Aprii gli occhi accorgendomi che non era più accanto a me e la vidi in mezzo alla stanza, le lucerne si erano spente ed era illuminata solo dalla luce argentata della luna. Guardandola, capii il lamento dei poeti che si struggono per non avere parole bastanti per descrivere le loro donne. Con quella luce, in quel silenzio sembrava un essere soprannaturale e non di questo mondo, una ninfa che si fosse mascherata da essere umano, come a volte facevano gli Dei, e che ora stesse rivelando la sua vera natura. Persino la piccola Filinna alla luce della luna dopo una notte di amore poteva sembrare tale. Rimasi immobile ad osservarla mentre si piegava per raccogliere la tunica abbandonata sul pavimento e la piegava con cura per appoggiarla su uno sgabello. La vidi guardarsi intorno cercando il bacile e la vidi piegarsi per lavarsi. Semplici gesti. La vidi alla luce della luna sorridere e fui contento perché ero sicuro che quello era un sorriso vero, non per gli altri, ma per lei stessa.
Alla fine, si accorse che la guardavo e si immobilizzò di colpo, proprio come una cerva quando si sente osservata. 
“Padrone, siete sveglio… Scusate vi ho svegliato.”
“Non ti preoccupare.” Allungai la mano. “Vieni qui, non prendere freddo.” Lei si lascio guidare fino al letto e si sedette accanto a me, ma non si ridistese
“Padrone io dovrei andare… domani avrò del lavoro da fare.”
“Non temere, Eryx lo sa che stai qua, di sicuro ne terra conto.”
“Non sto lavorando per Eryx questi giorni, sto lavorando con mio padre.”
“E cosa ti sta facendo fare?” Le chiesi, mentre le accarezzavo la mano.
“È un vostro ordine Padrone, stiamo facendo delle copie dei libri per la biblioteca di Baia.”
Mi ricordavo, mi ricordavo bene. La biblioteca laggiù ormai era in pessimo stato e avevo chiesto nuovi volumi.
“Pensavo che facesse fare le copie fuori casa.”
“La maggior parte sì, non si potrebbe fare altrimenti, ma alcuni mio padre preferisce farli fare qui da noi, dice che i copisti esterni fanno sempre pessimi lavori,”
Ahhh la precisione di Cleone, sempre puntiglioso fino all’estremo.
“Su cosa stai lavorando, tu?”
“Orazio padrone, adesso sulle Odi.”
Sorrisi “Avrò gran piacere a rileggerle.” 
E recitai:
“Maecenas, atavis edite regibus,
O et praesidium et dulce decus meum,
Sunt quos curriculo pulverem Olympicum
Collegisse iuvat, metaque fervidis
Evitata rotis palmaque nobilis
Terrarum dominos evehit ad deos.”
“E perché mai dovreste leggerle, se ve le ricordate così bene a memoria, padrone?”
“Per il piacere di ricordare la mano graziosa che le ha scritte, deliziosa mano.”
Me la portai alle labbra la baciai giocosamente, Filinna scosse la testa come a rimproverarmi, poi di sua iniziativa mi accarezzo i capelli.
“Vieni a coprirti o prenderai freddo.” Ripetei. “Tuo padre, sa anche lui dove sei. Vieni qui Asterope” Scherzai. Se una ninfa sembrava, di una ninfa prendesse il nome. “Stammi vicino, e tienimi caldo.” 
Ubbidì e si ridistese vicino a me l’avvolsi nella coperta e me la strinsi contro.
“Comunque mi sbagliavo, Filinna.” Feci con voce seria.
“Su cosa padrone?” mi chiese, con una nota di preoccupazione.
“Venere non può essere stata così generosa con te!”
“Cosa volete dire?”
“Non può essere stata così generosa, Filinna.” Feci un attimo di pausa per assaporare la battuta. “Qualcuno deve averle di nascosto rubato tutte i suoi tesori più preziosi che nascondeva e li ha dati a te.” E immaginavo, ridendo dentro di me, il buon Cleone, improbabile eroe del mito, basso, grassoccio e con pochi capelli, magari coperto da una pelle di leone (ma un leone piccolino) che svaligiava gli Dei Olimpici dei loro tesori per donarli alla figlia. 
Filinna, però, non sorrise, come si aspettavo, anzi spalancò gli occhi con aria allarmata e con una mano mi tappò velocemente la bocca.
“No Padrone! Non prendente in giro gli Dei vi prego! No! Lo sanno, ci sentono, e poi ci avversano mandando sfortuna e privandoci del loro aiuto.”
“Oh Filinna, la fortuna dobbiamo costruircela noi, con le nostre azioni, gli Dei ci accompagnano, ma non decidono tutto loro.” Risposi divertito dalla sua reazione.
Rimase in silenzio ad osservarmi e poi scosse la testa e mi rispose la voce seria.
“Questo forse è vero per voi Padrone, che siete un grande uomo, di una grande famiglia, avete i vostri lari e vostri antenati…, ma io sono solo una schiava… gli Dei possono tutto sul mio destino, io sono nelle loro mani. Capite Padrone?”
Era bella, era colta, era pia e, a quanto pare, era anche saggia, la figlia di Cleone.

Mi lasciò la mattina e io, sorridente e allegro, come solo una intera notte con una bella donna possono rendere un uomo, mi recai a cercare qualcosa da mangiare.
Nel triclinio trovai mia madre che sbocconcellava un fico.
“Vi saluto madre, come state.”
Mi chinai per un bacio sulla guancia.
“Bene Marco, bene, e vedo che anche tu stai bene. Dopo una piacevole notte.”
Mi sedetti e anch’io presi un fico e del pane, uno schiavo mi versò una coppa di acqua fresca e limpida.
“Sì madre. Sto bene. Grazie.” Risposi, ignorando la sua provocazione.
“Sono contenta per te. Che finalmente ti sei preso quello desideravi.”
La guardai sorpreso e inghiottii il boccone che stavo masticando.
“Cosa intendi madre?”
“Cosa mai devo intendere, Marco? Sono contento che si sia finalmente concluso questa specie di romanzo.”
“Parli della figlia di Cleone, immagino, ma non capisco comunque cosa intendi.”
“O Giove, figlio mio, non ti dimostrare così stupido. Tutta la casa ne parla, da giorni. Persino le mie due ancelle, seppur vecchie e rinsecchite, sospiravano, emozionate come fanciulle, al pensiero di tutta questa passione. O Marco, lei che scappa, tu che la vai a cercare, anzi a salvare, la difendi e non me la fai scacciare, ti preoccupi persino per lei dopo averla punita e infine, finalmente la fai tua.” Fece mia madre e gesticolò ironicamente come un teatrante. “Che storia emozionante. C’erano addirittura ridicole voci, che le avessi fatto infliggere meno colpi di quelli che le avevo affibbiato. Che sciocchezza come se fosse possibile che un figlio disobbedisca alla madre.”
Mi fissò, le labbra strette.
“Precisiamo, Marco. Non sono insoddisfatta della tua scelta. Sei giovane, e fino a che non sarai sposato, ti servirà uno sfogo. La ragazza è carina, pulita, immagino fosse vergine. È sana e vive in questa casa e sappiamo da dove viene e cosa fa. Molto meglio di tante altre alternative.” 
Mandai giù a forza un altro boccone, inutile sperare di fermare il suo monologo.
“Approvo, ti dico, tanto è vero che prima le ho pure concesso a lei e alla madre di prendersi la mattina e di andare al tempio di Venere a sacrificare e gli ho detto persino di farsi dare due conigli bianchi in cucina dà offrire alla Dea. In fin dei conti è mio figlio che l’ha fatta diventare donna. Non mi guardare con quella faccia sono una donna che avuto un marito e ho generato te e tuo fratello, non sono cose a me ignote! Una sola cosa mi dispiace.”
Fece una pausa che capii dover riempire con un doveroso:
“Cosa Madre?”
“Che quel piccolo ometto intrigante di Cleone, ha avuto successo col suo piano.”
“DI quale piano vai parlando?”
“Dell’idea di infilare sua figlia nel tuo letto è chiaro.”
“E perché mai dovrebbe esserci un piano?”
“O sciocco ragazzo, per quale ragione spendere così tanto tempo a insegnare a una schiava a leggere e recitar poesie se non fosse per incantare un sognatore come sei tu, o come era il tuo povero fratello. È evidente!”
Mi era piuttosto nota l’antipatia che mia madre provava per Cleone, a trattenerla era solo la stima che mio padre aveva avuto per lui e forse l’affetto che provavo io, ma ogni tanto si sfogava e a volte lo maltrattava apertamente.
“Madre credo che tu stia fantasticando.”
“Davvero? Dici? Dimmi che ieri notte dopo aver soddisfatto i bisogni della carne, non vi siete deliziati scambiarvi versi e dotte citazioni.” Arrossii. “Vedi? E adesso quell’ometto ha la sua figliola che sussurra quello che vuole lui nell’orecchio del padrone, la notte, abbracciati sotto le coperte.”
“Madre, stai delirando. Sentimi, ma se tutto questo che ipotizzi fosse vero, se fosse tutto preparato, perché mai allora sarebbe scappata di casa quella sera?”
Mi sembrava un buon argomento, solido e logico, ma mia madre non ne sembrò minimamente colpita, mi fissò di nuovo con biasimo.
“Marco, un giorno anche tu sarai un genitore, farai grandi progetti e avrai grandi aspettative, e allora capirai che i figli possono essere la nostra peggiore delusione.”
Mia madre, impossibile avere l’ultima parola con lei.

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