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Bridgerton



Ieri sera ho finito di vedere Bridgerton. Ho visto questa serie con lo stesso piacere colpevole con cui si addenta un panino da McDonalds, con tutte quelle misteriose salsine che ti schizzano in bocca e il bacon croccante che infiamma le papille gustative, già stimolate da tutto quel lussurioso formaggio filante. Tutto ciò mentre nel retro del cervello già ci si immagina il viso severo del medico di famiglia che sfoglia, scuotendo la testa, la cartellina delle analisi del sangue. Un tripudio di grassi, sali e colesterolo. Delizioso lì per lì, ma che a rifletterci bene avremmo dovuto evitare.

Ecco la nuova serie di Netflix è stata proprio così, un momentaneo piacere, una sovraeccitazione dei sensi, ma a mente fredda, col senno di poi e con un po’ di analisi, ti lascia abbastanza disgustato, chiedendoti cosa diavolo hai fatto.

Mi ha tentato l’atmosfera Regency, di cui non mi sazio mai, e la fotografia squillante di colori come un Renoir, ecco la fotografia, quella senza dubbio non la contesto.

La storia in sé stessa è un classico immarcescibile e già visto, saporito e banale proprio come il panino di McDonalds da cui siamo partiti: la storia d’amore impossibile. Un topos che ha qualche migliaio di anni, forse e su cui non mi dilungo e vi rimando a “L’amore e l’occidente” di Denis de Rougemont, un classico che dovrebbe parlare di poesia provenzale e invece diventa manuale di vita e di sentimenti.

Il topos dell’amore contrastato si può rozzamente suddividere in tre grandi filoni identificati dall’ostacolo. L’amore può essere ostacolato da un avversario (il re cattivo, la matrigna, il drago) può essere ostacolato dalle regole società (come Romeo e Giulietta), o può essere ostacolata dai doveri degli stessi protagonisti (Lancilotto e Ginevra di Chretien de Troyes, o più semplicemente Jane Eyre).

Bridgerton tenta di inserirsi in questo terzo immortale filone: il tenebroso Duca ama, ma non potrà mai far felice la sua amata a causa di un cupo giuramento primordiale di rovina e vendetta contro il suo stesso padre. Messa così sembrerebbe ‘na ficata shakespeariana che promette un nuovo Re Lear, ma appunto gli sceneggiatori, e nemmeno la scrittrice dei romanzi originali, sono bardi immortali, e quindi dicevo manco “tentano” sapendo di non poterci riuscire; devono preparare un panino, non un pranzo gourmet.

Il vero ostacolo, che si ripete noiosamente in varie salse per almeno metà serie, è in realtà la completa, totale, insulsa, incomprensibile, esagerata e, ho finito gli aggettivi al momento, incapacità dei due protagonisti di comunicare ed esprimersi in maniera comprensibile i loro reciproci sentimenti, a parte un altrettanto noioso, alla lunga, e banale desiderio di zomparsi addosso e strapparsi le mutande a vicenda.

A volte storie banali possono essere salvate da personaggi azzeccati, in fin dei conti lo spettatore, così come il lettore, si innamora dei personaggi, ma qui, ahimè non abbiamo neppure questo, i personaggi a ben guardare sono tutti non solo scialbi, ma decisamente uno più odioso dell’altro.

Il Duca Simon è un tipo egocentrico e arrogante con la sensibilità di un pezzo di mattone, che si salva solo per il fatto di essere (cito una cara amica) “un tronco di strafico, che chiama sesso a gran voce” (alla faccia dell’oggettivazione sessuale da condannare), la protagonista, Daphne, invece non si salva neppure per quello: è una pallida, insipida, bambolina di pizzo, dall’occhio lacrimoso e dalle grandi pretese. I fratelli di lei sono uno peggio dell’altro, altezzosi, senza qualità e con poco cervello, talmente presuntuosi dall’alto del loro status sociale da sentirsi autorizzati a far soffrire e trattare come oggetti chiunque sia intorno a loro, a seguirli mi sono trovato a sognare una ucronica rivoluzione bolscevica antelitteram nell’Inghilterra di inizio ‘800, solo per il piacere di immaginarli di fronte a un plotone di esecuzione.

Una riga a parte merita la sorella di Daphne, Eloise, ma solo per dire che vorrebbe essere Jo March, ma non  ci riesce.

Uno dei pochi personaggi per cui si riesce a provare un sentimento di umana simpatia è la rotondetta Penelope Featherington, l’unica che sembra avere sentimenti di una qualche profondità e soprattutto è l’unica che dimostra, non vi dico come, per evitare spoiler, di essere qualcosa di più di una bambolina predestinata a fare la moglie.

Coinvolgente è anche il dramma di Miss Marina Thompson, giovane donna rimasta incinta, di cui seguiamo i suoi, frenetici, discutibili, tentativi di trovare un inconsapevole marito di buon rango a cui affibbiare il frutto del peccato, prima che la sua reputazione venga rovinata.

Altro personaggio che, alla fine, ho apprezzato è stato paradossalmente quello che dovrebbe essere uno dei personaggi cattivi, la Baronessa Featherington che nell’ultima puntata in una sola battuta dà una malinconica lezione di vita e di sentimenti sinceri, che se compresa dallo spettatore getta nuova luce su tutte le ipocrisie sociali che ci siamo sorbiti nelle precedenti puntate, una donna capace, in una situazione difficile che affronta a testa alta, con tutte le sue forze, ma lei è Polly Walker e dalla temibile Atia, la madre di Ottaviano Augusto nell’indimenticabile Rome dell’HBO, non c’è da aspettarsi nulla di meno.

In sintesi: Ok in un uggioso giorno di pioggia in zona rossa, se proprio non volete leggere un buon libro.

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